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Le differenze tra Milano e Roma

Sempre più fuori

Michele Masneri

Gazebo, case mobili, pergole, o semplici tavolini conficcati fra le rotaie dei tram. Le microarchitetture mobili (e spontanee) che stanno cambiando le nostre città.

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Tavolini, poltroncine, sgabelli. E tendoni, gazebo, pergolati, case mobili, perfino piccoli boschetti di bambù. Il weekend aperturista appena trascorso, quello in cui tutte le zone sono erano  grigie, quello che, complice l’aria di primavera e la fioritura di Draghi, ha portato tutti in strada a festeggiare come un  ferragosto o un  capodanno, ha visto finalmente il pieno utilizzo anche delle numerose e composite infrastrutture che sono sorte in questi mesi in un caso di architettura spontanea delle più interessanti. 

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Tavolini, poltroncine, sgabelli. E tendoni, gazebo, pergolati, case mobili, perfino piccoli boschetti di bambù. Il weekend aperturista appena trascorso, quello in cui tutte le zone sono erano  grigie, quello che, complice l’aria di primavera e la fioritura di Draghi, ha portato tutti in strada a festeggiare come un  ferragosto o un  capodanno, ha visto finalmente il pieno utilizzo anche delle numerose e composite infrastrutture che sono sorte in questi mesi in un caso di architettura spontanea delle più interessanti. 

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Il Covid ha portato infatti, oltre a tutte le tragedie e le seccature che si sanno, anche piccoli ma significativi cambiamenti del panorama urbano. E non, finora, modifiche sostanziali e programmatiche (le case con più spazi aperti, gli uffici adattati agli smart working) di cui si vagheggiava agli inizi: no, le nostre città si sono velocemente riempite di nuovi spazi aperti o meno aperti, legali o paralegali, in serie oppure artigianali (con qualche pezzo assolutamente unico): comunque “fuori”, e in piena libertà.

 

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La sindrome del déhors diffuso ha colpito naturalmente Roma, dove intere piazze sono diventate dense platee di tavolini, a volte semplicemente appoggiati sul sampietrino, magari incastrati nelle rotaie dei tram, tipo megalopoli indiane col treno che passa radente il bicchiere, o scenografia di “Roma” di Fellini; per avventori ormai acronici dai bioritmi scombinati, per pranzi alle 17 e aperitivi alle 14.

 

Molti bar e ristoranti hanno invece  investito e ideato: c’è chi, col favore delle tenebre (cit.), ha progettato balaustre e staccionate, chi ha impiantato tipo “Isola delle Rose” piattaforme in zone extraterritoriali tra le strisce blu (in versione piana o rialzata). I più poetici hanno creato piccole foreste di piante attorno alle suddette pedane (green). E mentre in altri continenti già sorgono compagnie specializzate in déhors covidiani, in legno, ferro, con illuminazioni e domotiche, già ribattezzate “streateries”, cioè mangiatoie da strada, ma non suona così brutale in inglese, in Italia  si sono fusi, in questo sforzo produttivo generale, l’estro mediterraneo dell’improvvisazione, il gusto per la variazione sul tema, e lo spregio per la regola formale.

 

Poveracci quei ristoratori che subito prima del virus avranno pagato  sanzioni per tavolini e spazi  in sovrappiù, pessimo tempismo. Ma adesso si affaccia una nuova generazione, gli occupatori immaginifici, e le piazze sono loro, e nessuno avrà cuore di chiedergli conto dell’occupazione e trasformazione di suolo pubblico. Rimane l’effetto estetico bizzarro, come i cordoli d’ottone a piazza di Spagna a circondare sedute di antiche sale da tè molto inglesi trasformate in tribunette esterne tipo Royal Ascot. E non c’è uno stile uniforme, in questo fuorisalone dal basso. E’ un eclettico covidico, è un made in Italy senza Compassi d’oro per gli anonimi progettisti del bersò e della capanna da marciapiede. 

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Con un primato  di Roma su Milano. Anche nello specifico nella nuova urbanistica da tampone, a cura non di archistar ma di farmacisti, che a diciannove-ventidue euro ti fanno il test, in mezzo alla strada, sotto questi presìdi medici da campo, tra i motorini. Stanno sorgendo nuovi usi e costumi da piazza paesana, anche; e Roma, ancora una volta, si conferma ideale borgo, contro la densità urbana della città industriale alienante e covidica. Non si potrà raggiungere tutto, ma in 15 minuti il gazebo del tampone ci arrivi: lì, addetti con tutona da astronauta si aggirano in queste tensostrutture, nella duplice versione: gazebo tipo proto-leghista anni Novanta, e casa-mobile con porte e finestre in alluminio anodizzato da checkpoint Charlie. 

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Questi addetti vi segnano su dei quadernetti o fogli volanti, vi chiamano, con nome e cognome, tipo “Rossiii, Bianchii”, urlato in mezzo alla pubblica via, e poi fanno segno col pollice alzato, e aggiungono “negativo, vai, bello”, oppure fanno pure lo scherzo, positivo, mannaggiatté. Qualcuno si vorrebbe lamentare per la violazione della privacy, ma poi prevale la felicità del risultato e di questa nuova vita e sanità all’aperto. Tutto questo ben di Dio a Milano non esiste: lì vanno molto invece testatori a domicilio, costosi, almeno 70 euro (molto richiesti perché fanno status: e viene fuori la solita alterità, Milano città di interni e di soldi). 


Tra gazebo, casette, panche e pedane, ci si chiede naturalmente quanto e cosa resisterà nel tempo di queste microarchitetture del Covid: perché nessuno, è chiaro, toglierà niente, almeno a Roma. Tutto lavoro per archeologi del futuro, anche senza eruzioni (tipo banchetti di street food pompeiani, con anche le loro scritte vandaliche già pronte, vabbè).
 

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