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Wes Anderson, poeta dello spleen più absburgico (pur essendo texano)

Michele Masneri

Dal Kunsthistorisches Museum di Vienna alla Fondazione Prada la mostra sul collezionismo e sulle ossessioni del regista

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Inizia timidamente con una parete di fratellini barbuti incorniciati tra due donnone imperiali (un’Isabella d’Este nientemeno che di Rubens e un’Arciduchessa Anna di meno celebre fattura), ed è forse un manifesto anche stilistico: se altri li mandano oggi in passerella, noi i freak li adoriamo già da cinquecento anni. Ma poi la fondamentale mostra di Wes Anderson e consorte, “Il sarcofago di Spitzmaus e altri tesori”, alla Fondazione Prada, è chiaro dove va a parare.

Il regista della nostalgia sartoriale e la moglie, la scrittrice e illustratrice Juman Malouf, hanno allestito a Milano una versione riveduta e corretta di quella proveniente dal Kunsthistorisches Museum di Vienna: ed è una specie di “notte al museo”, dove è facile immaginare il duo a frugare felice tra le collezioni più strampalate e tra tesori e tesoretti legati da quasi nessun legame (ognuno è libero di trovare nessi come gli va nella penombra priva di didascalie, e intanto cerca di decifrare il bellissimo foglio di sala tipo caccia al tesoro, sotto il lume dei fiochi faretti, come nei ristoranti più cool, oggi). E quindi via all’accumulazione e agli accoppiamenti giudiziosi: tabacchiere imperiali e scarafaggi egizi, malachiti e ranocchi e maschere giapponesi e vasi precolombiani, backgammon cinquecenteschi e sarcofagi di roditori, in una selezione tra “L’incendio di via Keplero” e il salotto di nonna Speranza che raduna “oggetti realizzati in un arco temporale che va da 4,5 milioni di anni fa a oggi”, in un allestimento godurioso di velluto verde come l’abito di scena per un Jedda Gambler di Ibsen fatto negli anni Settanta messo accanto a un’arciduchessa Maria Cristina fine cinquecentesca (e tra il pubblico feriale anche molti romani: “Me piace troppo ’sto colore”). L’idea del glorioso museo austriaco era di seguire un po’ le grandi mostre degli anni Ottanta della National Gallery londinese, cioè affidare a un occhio d’artista gli sterminati e polverosi luoghi istituzionali (con artisti a rovistare e interpretare: Lucian Freud, Francis Bacon, David Hockney). Però non hanno fatto i conti con Anderson, che del museo era già frequentatore ossessivo. “Abbiamo 4,5 milioni di oggetti. Per fortuna non hanno voluto vederli tutti”, ha detto il curatore del Kunsthistorisches Jasper Sharp. Ecco dunque questo grande inventario struggente della più sublime finis Austriae: è un po’ come aver ereditato da degli zii viennesi un po’ abbienti e ossessivi una intera casa da svuotare; ritratti di filosofi e Salomè con la sua testa mozzata; canoe della Groenlandia (“che spettacolo!”, sempre i romani); pugnali, busti dei Cesari e dei filosofi, mine di antica fabbricazione, cammei e medaglieri, settecentesche “bozze per una corsa in slitta nel cortile della Hofburg”, dal meraviglioso museo delle carrozze imperiali (che tracciano percorsi tipo tango di Andy Warhol). Miniature giavanesi. Una nostalgia dell’impero lancinante, come del resto sempre in Anderson, poeta dello spleen più absburgico, pur provenendo da Houston, Texas (ma da famiglia abbiente e televisiva).

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Dove chiaramente gode, e fa godere, il regista-curatore, non è tra i capolavori sparsi, tra i Cranach e Tiziano, ma nei fondi di magazzino, specialmente nel reparto involucri: ecco dunque intere vetrine dedicate alle custodie: per crocifissi, per trucchi, per intestini, per corone e scettri, per piume di struzzo, per onorificenze coreane, per cammei napoletani, per tazze di caffè e cucchiai almeno imperiali (e il calice di Napoleone). Per flauti. Cappelliere varie deliziose come scatole di pasticcerie direttamente da Gran Budapest Hotel. E poi, solitario e programmatico, in una teca, il beauty di Hubert Marischka, tenore e regista di Strauss ma soprattutto fratello del più pop Ernst, regista del ciclo filmico di Sissi che ha formato l’immaginario absburgico più di Musil e Joseph Roth. Questo beauty, omaggio forse alla grande assente Sissi, è una valigia, magari a significare che l’augusta monarchia che fece grande anche Milano era non solo duale ma assai mobile, stando un po’ a Vienna e un po’ in giro: dunque i palazzi, tranne la Hofburg, venivano svuotati e riarredati a ogni viaggio imperiale, con cento carrozze sempre pronte, e mille addetti agli imperiali traslochi. Venne poi creata la Hofmobilieninspektion, il dipartimento degli imperial arredi, che allestisce le residenze (e lì, dopo la repubblica, venne accatastato tutto il mobilio, poi utilizzato per la trilogia della principessa triste con Romy Schneider). E più che dal Kunsthistorisches sembra che da lì abbia preso l’estro il texano-viennese, e perso la testa, tra corridoi e magazzini tipo casa d’aste anche molto minore, con biliardi, scrivanie, case di bambola, cornici, centinaia di candelieri, sputacchiere di ogni epoca ma soprattutto Biedermeier; inginocchiatoi, attaccapanni, la sedia a rotelle impiallacciata di Elisabetta Cristina (1691-1750), elmi di Massimiliano del Messico, pendole di ogni epoca, alari da fuoco, specchiere, il trono di Francesco Giuseppe, un armadio a ponte tipo Mondo Convenienza per qualche casino di caccia. A casa Asburgo chiaramente non si buttava niente. Ed è proprio lì forse il senso: “Ogni cosa, nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria sembrava essere stata fondata per durare nel tempo, e lo stato stesso era il garante supremo di questa stabilità”, scriveva Stefan Zweig in “Il mondo di ieri”; eulogia per il mondo absburgico che Anderson naturalmente venera. Ne verrà fuori anche una lettura politica, chissà: questo l’Impero ci regalava, visto da oggi e dall’Europa sconquassata dai sovranisti zarri e dalle brexit dementi.

 

Che nostalgia. Anche dell’infanzia, naturalmente: “Il mondo è così grande, complicato, abbondante di meraviglie e sorprese, che servono anni alla maggior parte delle persone per cominciare ad accorgersi che è irrimediabilmente compromesso. Normalmente chiamiamo questo periodo di ricerca infanzia”, scrive Michael Chabon nell’introduzione a “The Wes Anderson Collection”, grande saggione-strenna curato da Matt Zoller Seitz già culto e oggetto supremamente andersoniano, con disegnini e mappe e modelli che impacchettano la realtà come nei suoi film, rendendola inoffensiva, come poi la mostra pradesca qui, fatta a stanze con addirittura un giardino: e lì erbarii, arcimboldi, frutti imbalsamati e serpenti sotto vetro di Linneo, lupi rospi e maialini impagliati, falchi tipo Mordecai dei Tenenbaum, pesce palla e camaleonti avanti Cristo. E il sarcofago che dà nome alla mostra, una tombina dipinta per un toporagno del IV secolo avanti Cristo. Forse animale da compagnia per bambini egizi molto abbienti, o adulti fragili e devastati (ecco un gigante e un nano, per mano, teneri, dipinti accanto a un Tiziano che passa completamente inosservato); “i cattivi non sono cattivi davvero”, secondo una canzonetta italiana ad Anderson dedicata. E pure i revolver qui imperiali sembrano giocattoli. Manca solo la bandierina con la scritta “bang” (poi, naturalmente uscire, e tornare alla realtà, è difficilissimo).

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