Foto di Alessandro Di Meo, via Ansa 

1938-2023

Addio a Maurizio Costanzo, lo stregone del talk

Andrea Minuz

Il suo show è stato un formidabile incubatore del populismo e ha creato una prima grande alchimia: mettere insieme, con successo, trash e tv impegnata

Si dice che i cinepanettoni abbiano raccontato con precisione chirurgica le trasformazioni dell’Italia degli anni Ottanta. Maurizio Costanzo ha fatto di meglio. Quell’Italia l’ha plasmata, l’ha creata, se l’è inventata sera dopo sera nel salottino del “Teatro Parioli in Roma”, come diceva la voce dello speaker, con gran solennità, prima d’ogni puntata.

 

Sin lì conosciuto solo agli abitanti di zona, e forse neanche a loro, il Parioli diventava ogni sera “La Scala” della tv italiana. La ribalta del paese. La “quarta Camera”, diceva scherzando Costanzo, dopo la terza di “Porta a porta”. Ma era molto di più. Il “Maurizio Costanzo Show” non è stato solo il nostro “late night” americano, prima che internet ci portasse in casa gli show della Nbc e della Cbs, ma un Grande Romanzo Italiano. Quello che letteratura, cinema, teatro avevano smesso di darci da un pezzo. Difficile non riconoscere, per esempio, che l’“Uno contro tutti” di Carmelo Bene resta agli atti come vetta dell’arte contemporanea, installazione vivente, happening.

 

Il miglior trattato mai scritto sulla “società dello spettacolo”. Invece di leggerti Debord, dico sempre, guardati Carmelo Bene da Costanzo. Un libro sull’Italia di quegli anni, invece, dovrebbe intitolarsi, “La sera guardavamo il Maurizio Costanzo Show”. Aspettavamo le undici o anche mezzanotte per una seconda serata che era meglio della prima (Costanzo, tra i primi, intuisce le straordinarie possibilità della dilatazione del palinsesto). Il “Costanzo Show” era un appuntamento fisso. Il segno che Canale 5 era avanti anni luce su una Rai che, Arbore a parte, era ancora ingessata, pesante, incapace di stare al passo con un paese che in quel momento andava a mille. Costanzo invece aveva la flemma giusta. Lasciava fare con una lentezza deliberata che poi passerà a Maria De Filippi, accovacciata sugli scalini di “Uomini e donne”.

 

Non erano vere interviste le sue, ma sedute di autocoscienza collettiva. Si lanciava un tema, quel tema diventava qualcos’altro, si andava fuori tema, si litigava, si incassavano buuuh, fischi o applausi. Come oggi su Twitter. Ma dal vivo, a teatro, mentre Costanzo si lisciava i baffi. Nel “Costanzo Show” c’era tutto: il trash e l’impegno civile, i premi Nobel e la cattiva letteratura, le sciampiste, l’antimafia, l’avanguardia teatrale, la tv del dolore, Sgarbi e D’Agostino, Falcone e Platinette, Sora Lella e la Franzoni, che, mi pare di ricordare, non spiccicò parola o quasi. Piangeva e basta. Il “Costanzo Show” è stato poi anche un formidabile incubatore del populismo. La platea che si prendeva sempre più spazio. Il teatro che sconfinava in assemblea d’istituto, le domande sempre più inferocite, la ribellione del Parioli. Se ne ricorda Paolo Virzì quando in “Caterina va in città” manda il prototipo del grillino che verrà, Giancarlo Iacovoni, a inseguire il suo quarto d’ora di celebrità anticasta proprio al “Costanzo Show”.  

 

Con “Bontà loro”, Maurizio Costanzo fu il primo a inventarsi il talk-show all’italiana, così come lo conosciamo oggi. Il primo a mettere insieme un presidente del Consiglio, un press agent e una balia nello stesso salottino televisivo (il presidente era Giulio Andreotti, la balia asciutta Giovanna Mizzoni, il press agent Enrico Lucherini). Ma è col “Maurizio Costanzo Show” che trova il punto di fusione perfetto. L’equazione tra tv e antropologia italiana. È Maurizio Costanzo che finisce per assomigliare al suo programma, non viceversa. Il “Costanzo Show” come un’opera mondo. Un’epica postmoderna, proprio come lui. Capace di passare con identico aplomb dalla prima stesura dello script del “Salò” di Pasolini, alle chiappe sculettanti di “Buona domenica”. Uno stregone inarrivabile.

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