The White Lotus e gli altri “paradisi problematici”

Mattia Giusto Zanon

La nuova serie di cui tutti stanno parlando racconta i tic dei “woke” americani, è ricca di simbolismi letterari, e segue un filone battuto in questi tempi: i luoghi dove la gente va a rilassarsi e a “cercare sé stessa” non sono sempre ciò che sembrano, anzi non lo sono quasi mai

L’inizio di The White Lotus è come affresco antico. Lo sguardo indaga soffermandosi sui dettagli di una fantastica raffigurazione tropicale su cui compaiono i titoli di testa. Le immagini ingrandiscono sezioni di una variopinta carta da parati. Uccelli e scimmie si divertono sui rami, cuccioli di ghepardo che sonnecchiano beatamente tra le fronde delle palme. Eppure, man mano, le immagini si fanno più inquietanti, la carta si macchia di grigiastro, c’è un primo piano di un piccolo pesce con un occhio sporgente mentre viene strangolato dalle alghe, e tre uomini che remano disperatamente per portare una canoa in salvo dalle acque iraconde.

 

I titoli annunciano che il posto in cui si sta per entrare – il lussuoso resort hawaiano che dà il nome alla nuova serie HBO creata da Mike White – è pieno di vita. Ma anche del suo contrario. È l’inizio di una commedia oscura, che contiene un topos ricorrente negli ultimi anni: il cosiddetto paradise with troubles. Tutto inizia con un omicidio, che è forse il dettaglio più secondario e scontato, ma serve a orchestrare l’edificio, a tessere l’ordito di qualcosa che non sta in piedi tanto per trama, quanto per dettagli, temi e scenografia.

Gli otto vacanzieri – una famiglia di quattro persone più un amica, una coppia di sposini in luna di miele e un’attempata viaggiatrice solitaria in lutto – sono avatar della classe media americana: autocommiserativi ma malvagi, progressisti e perciò superiori (almeno nella loro testa). C’è anche una persona che è evidentemente fuori dalla propria zona di comfort: Rachel, la 30enne in luna di miele con gli occhioni chiari, interpretata da Alexandra Daddario. È una “giornalista freelance” che è finita a scrivere stronzate, articoli-marchetta o acchiappa-like che però anziché i soliti gossip culo-tette di tizia/tizio al mare hanno abbracciato anche argomenti “alti”. Perché pure il clickbait si è fatto furbo, tramutandosi in una modaiola quanto superficiale buffonata “woke”. Una satira sociale che a tratti fa la satira di sé stessa, brillante.

 

In The White Lotus siamo in un contesto vacanziero. E l’equazione spiaggia-ombrellone-mare spesso vuol dire anche una cosa: libri. Interessante è l’attenzione che l’occhio indagatore posa sulle copertine dei volumi che i singoli personaggi sfogliano distrattamente durante il loro soggiorno, perché è come se raccontassero molto di chi li maneggia.

A bordo piscina, il ricco agente immobiliare Shane Patton, si rilassa con una copia di Blink: The Power of Thinking Without Thinking di Malcolm Gladwell, autore del New Yorker, il tipo di scrittore che ti fa sentire intelligente mentre lo leggi, che tu lo sia o non lo sia. Rachel è troppo distratta per concentrarsi sulla copia del libro che si è portata appresso (e qui è curioso perché il tomo che ha con sé è uno dei capitoli della saga de L’amica geniale della nostra Elena Ferrante). Per le due adolescenti acide e so-tutto-io, Olivia e Paula, White ha optato per due giganti: Freud e Nietzsche, teorici citabili per sfoggiare il proprio status intellettuale. Nietzsche in particolare è usato come segnale cerebrale nella cultura popolare e nella cinematografia in genere, basti ricordare il suo sfoggio in Un pesce di nome Wanda con Kevin Klinee e Jamie Lee Curtis, o ancora da parte di Robert De Niro in Cape Fear o Paul Dano in Little Miss Sunshine.

E i riferimenti letterari e cinematografici che danno vita a questa serie si sprecano. È una lunga costellazione, dalla letteratura di Yoga di Emmanuel Carrère, che smonta vari cliché delle pratiche di benessere e che racconta come il troppo tempo dedicato alla ricerca di sé e della tanto agognata “pace interiore” lo stesse facendo partire di testa, ma c’è anche la nuova serie Nine Perfect Strangers, in cui nel buen retiro di un resort californiano (ed ecco che ritorna la famigerata location) gli ospiti si trovano a dover fare i conti con una sinistra Nicole Kidman dall’accento sovietico. È un grido, un leit-motiv che torna, ciclico: i resort non sono mai ciò che promettono.

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