A Saxa Rubra ha sede il Centro radiotelevisivo Biagio Agnes della Rai, inaugurato negli anni Novanta (LaPresse) 

Il Foglio Weekend

Se la Rai va a Milano: Saxa Rubra de la madunina

Michele Masneri

Storia di un carrozzone inamovibile che nessuno vuole nemmeno più dirigere

Uno dei segnali che siamo fuori ormai dal Covid è arrivato dal clamore suscitato da una notizia molto ma molto marginale; quella per cui la sede Rai di Milano dovrebbe cambiare palazzo. Si dovrebbero infatti lasciare gli studi di via Mecenate, e  l’antica sede disegnata da Gio Ponti nel ‘39 per l’allora Eiar a corso Sempione, e spostare tutto al Portello, cioè alla Fiera, che però siccome siamo a Milano ha un acronimo, Mi.Co. La notizia, non propriamente una “breaking news”, ha avuto l’effetto che manovre militari russe hanno ai confini con l’Ucraina, o esercitazioni cinesi nel Pacifico. 

 

La paranoia è giunta immediatamente nei quartier generali di Roma, dove si sospetta che l’accorpamento nasconda invece un ingrandimento, e tanto è bastato per suscitare nella capitale reazioni allarmatissime in quella guerra fredda dell’audiovisivo che va avanti da sessant’anni. Non hanno aiutato le reazioni sovreccitate dei milanesi. Beppe Sala: “Finalmente il segnale che chiedevamo da tempo è arrivato. Ora tutti al lavoro per realizzare il progetto, dando nuove opportunità a quest’area di Milano e nuovi stimoli al sistema radiotelevisivo pubblico e alle sue capacità creative e produttive”. Il presidente della regione Attilio Fontana: “La Lombardia e Milano, punti di riferimento nazionali dell’informazione e della comunicazione meritano questo riconoscimento, atteso da troppo”. 

 

Subito a Roma hanno sbroccato.  “Roma è la capitale dell’audiovisivo, e tale deve rimanere”, ha tuonato Nicola Zingaretti, nella sua triplice veste: di governatore della Regione Lazio, di fratello di primario attore Rai, di abitante del rione Rai (cioè Prati-viale Mazzini, che non ha acronimi, siamo a Roma). “Ogni città ha le proprie vocazioni, che derivano dal tempo, dalla tradizione e da consolidate esperienze: e l’audiovisivo, la produzione televisiva, la tv pubblica sono proprie di Roma, della Capitale d’Italia e del Lazio”, ha detto l’ex segretario Pd, forse citando involontariamente Gore Vidal (“Roma è la capitale di tutto ciò che produce illusioni: il cinema, la Chiesa, la politica”, ma anche: “Roma è la città perfetta per aspettare la fine del mondo”).


E Letizia Moratti: “E’ mortificante il divario che c’è oggi con Roma. Zingaretti è contrario perché difende un interesse provinciale. Qui c’è una grande vocazione per l’informazione” (In quel “provinciale” rispunta la ubris lombarda pre-Covid.  forse acuiti dall’onta vaccinale).Non solo Zingaretti, tutti i candidati-sindaco a Roma si sono imbizzarriti come cavalli Rai  che sentono la parola Milano: Virginia Raggi, Roberto Gualtieri e Carlo Calenda per la prima volta come un sol uomo. E il deputato dem Roberto Morassut ha addirittura annunciato un’interpellanza contro questo progetto che già è stato soprannominato brutalmente “Saxa rubra milanese”.

 

Evocando così oltretutto lo spettro distopico di quell’avamposto televisivo romano nato per Italia Novanta. Quel luogo che pare il delirio di un’archistar azera o bielorussa, o un esperimento idealistico,  tipo Arcosanti in Arizona: bunker di cemento armato tra boschi da Twin Peaks, in un microclima peculiare. Una copia del cavallo Rai, ma rivestito d’oro, opera di Mario Ceroli, risplende in quel luogo oscuro, così chiamato per le cave di tufo rosso nell’antichità, e già teatro della battaglia di Ponte Milvio del 312 d.c. (ove Costantino combatté Massenzio, prima di Moccia,  dei lucchetti, delle Smart,  degli allagamenti).
  

E però forse quel cavallo alato, d’oro come la Madonnina, a ripensarci oggi pare già una provocazione. O una premonizione. Già, chissà come sarà la Saxa Rubra milanese, sarà sicuramente green e sostenibile e partecipata (orizzontale o verticale?). Il tema isterizza: evidentemente a Roma si è terrorizzati che dopo Sky emigri anche “la più grande azienda culturale del paese”. Ma la verità è che la questione Saxa milanese fa riaffiorare il duello Milano-Roma pre-Covid, quello con le polemiche tra il vice segretario del Pd e allora ministro del Sud Provenzano che sosteneva che “Milano prende e non dà”; e Sala che rispondeva: queste cose fatele ad Avellino! Il Covid non ha aiutato, con le umiliazioni subite dalla Lombardia, e con il Lazio invece inopinatamente efficace. 

 

Così oggi si dice Rai ma si intende Roma. “Questa idea che c’è un’affinità elettiva tra la Rai e Roma e che questa cosa non si può toccare è uno degli esempi per cui il nostro Paese non riesce a progredire”, ha sbroccato Beppe  Sala. Ma il rapporto dei milanesi con la Rai è complicatissimo, sono due universi destinati a non incontrarsi mai. Basta pensare ai bar e ai ristoranti attorno a viale Mazzini, la stanca meraviglia del quartiere, che sembra un’area residenziale di Tel Aviv o Teheran, comunque mediterranea. E poi le liturgie, e le moquette. Altro che il look “industrial” e un po’ natatorio del palazzo di Corso Sempione a Milano, coi suoi corrimano leggendari tra i mosaici di Ponti. E se a Milano il tempo ha ricominciato a correre (c’è tutto un fermento), nei boschi sacri attorno a Saxa, tutto è cristallizzato da sempre (nelle bacheche ci sono ancora gli avvisi per partecipare al Giubileo del 2000, officiante Papa Wojtyla).  

 

I vertici Rai, quando provengono dal Nord, la considerano un’esperienza esotica che li segna a vita. Accettano la carica come se accettassero il vicereame d’India. Poi tramandano l’esperienza in libri tipo memorie di guerra, da lasciare ai posteri.  Il più sofferente dei direttori naturali che la Rai abbia avuto è stato un milanese, Carlo Verdelli:  “Direttore editoriale per l'Offerta Informativa”, nominato nel 2015,  dall’esperienza non si è mai più riavuto: ha scritto un libro, “Roma non perdona” (Feltrinelli, 2019), che è una “Vita agra” però ambientato nel quartiere Prati. Dove l’unico grattacielo è quello Rai, molto più basso della torre Galfa milanese che l’antieroe di Bianciardi voleva far saltare. Comunque, tanta sofferenza. “La Rai mi ha espulso come un corpo estraneo, gli ultimi che sono entrati nella grotta romana di Polifemo per curargli la vista non ne sono usciti benissimo. Il gigante se li è mangiati e poi li ha sputati a pezzettini. Parola di pezzettino”, sintetizzò con similitudini omeriche.  

 

I vertici nordici alla Rai insomma soffrono sempre. Invece che guardare all’esperienza sociologica e architettonica, e trattare anche quel grattacielo  (che poi più che grattacielo è palazzina, siamo a Roma) col rispetto dovuto, come in un museo: gli  ascensori di destra, riservati ai mega direttori naturali, il plastico; il ristorante-mensa all’ultimo piano con menu filologico anni Ottanta con pennette alla vodka, e la rete anti-suicidi; l’arredamento “a salire”, puramente fantozziano, con ficus-poltrone in pelle man mano che ci si avvicina all’apice; invece che godersela come in un film di Wes Anderson, si struggono.

 

Non si godono, fuori, la verticale di riunioni e pranzi tra mozzarelle in carrozza e supplì e contesse romane dal trucco franante. Soffrono, cercando ciò che non potranno mai avere: sobrietà, efficienza, merito, tumulandosi – ulteriormente autolesionisti – in residence solitari e angusti (Verdelli visse il suo breve supplizio al residence Mazzini, almeno Campo dall’Orto stava all’Aldrovandi, sunset boulevard dei Parioli, quello dove visse lungamente depresso, e infine perì, Dino Risi).   


Anche Letizia Moratti, che fu presidente della Rai negli anni Novanta, ne fu segnata abbastanza da scrivere un tomo (“Io e la Rai”, Rizzoli, 1996). Sulla scrivania teneva a proteggerla il ritratto di sua nonna, la mitica donna Mimina Arnaboldi, leggendaria salonnière nella Milano dei primi del Novecento, ma non fu sufficiente a domare i fantasmi romani. Marcello Foa, milanese ma con residenza svizzera, per ora non ha scritto nulla. Forse si trova bene.

 

La rivincita di Milano sembrò arrivare a inizio anni Duemila quando Umberto Bossi chiese e ottenne che – anche quella volta – un pezzo di Rai si spostasse a Milano: nello specifico Rai Due, nello specifico la direzione. Nello specifico capitanata da un suo uomo, Antonio Marano. Il trasferimento ebbe luogo. Folle dotate di gonfaloni col sole che sorge celebrarono l’avvenimento a piazza Duomo, intervennero Cochi e Renato, Memo Remigi e Paolo Limiti (Simona Ventura, più astuta, diede forfait all’ultimo). Ma forse per nemesi, forse per la duplice natura di Marano, mezzo leghista e mezzo foggiano, dopo un po’ si capì che trasferimento formale era, trasferimento fasullo (erano i tempi in cui si parlava anche di spostare ministeri al Nord); e dopo un po’ non se ne fece più nulla (non aiutò il fatto che Marano, duplice natura, si innamorò di Roma e delle sue lusinghe, e a Milano non ci volle andare proprio più). 


Insomma parliamo di una  guerra identitaria, una culture war che serpeggia da tempo. Pensiamo anche solo  alla infuocata querelle tra Fedez e le tecnostrutture Rai il primo Maggio, dove, al netto dei contenuti, si capiva che a parlarsi eran due mondi incompatibili: il cantante giovane, sfavillante, milanese; e le telefonate della povera Rai, col suo lessico novecentesco dei funzionari e delle cautele: “Lei capisce… l’opportunità… le passo la dottoressa”. La Rai che stremata fa trapelare l’audio della telefonata non tagliata, undici minuti, un tempo novecentesco: e Fedez, che, millennial, risponde con le faccette. 

 

Intanto Milano si capisce che è tornata la Milano del pre-Covid. Primo atto politico del candidato Beppe Sala: un tram bianco dedicato a Carla Fracci realizzato a tempo di record, dopo la dipartita dell’étoile (perché il papà della Fracci faceva l’autista dell’Atm). C’è tutta Milano in questo gesto politico, l’epica del tram, la rapidità, la comunicazione, l’evento.  Sala, non fortissimo nei sondaggi, è chiaro che verrà rieletto, c’è un complotto per farlo vincere. La parentesi Covid archiviata, anche la vituperata Moratti è riuscita a colmare l’onta del disastro sanitario. Sono ripartite le feste. Milano ribolle di rivincita. E certo rimane il tema del sindaco, anzi dei sindaci: Milano e Roma, così diverse, cercano entrambe personale. A Roma si scherza (per sdrammatizzare) che rivince la Raggi, a Milano più paraculi  nelle cene si dicono che  “Milano può fare benissimo senza il sindaco”. 

 

Se le due città marciano verso possibili riconferme, la Rai è l’unica che ha realizzato l’utopia grillina del mandato singolo. E dunque bisogna decidere. Si cercano l’ad e il presidente: diplomazie e burocrazie al lavoro, dunque. I nomi dovrebbero esser decisi entro fine mese, ma si è in alto mare. Qualcuno sussurra che Draghi che tutto può, sulle nomine Rai ha trovato il primo vero ostacolo sulla sua strada. Ci sono vaghe indicazioni. L’ideale sarebbe una donna (ma allora perché non ricicciare la Moratti?).

 

Si incrociano due problemi molto attuali italiani: i bassi salari, che non riguardano solo giovani e camerieri, e lo sgretolamento della classe dirigente. Per cui succede questo: bisogna trovare ad e presidente che siano competenti, e soprattutto (per non far implodere la delicata dinamica di governo e di maggioranza), che non abbiano alcun legame con la politica. Facile no? Per questo scusa Letizia, non hai possibilità. Ma neanche ne ha il nome più evocato e qualificato, quello di Eleonora Andreatta detta Tinny, responsabile di un altro capitolo della guerra Milano-Roma: la Netflix italiana, non quella della cultura ma quella vera,  che sta per avere una sede fisica in un villino liberty nel quartiere Ludovisi. E che sta macinando successi anche molto italiani, da “Sanpa” a “Baby" a "Summertime", prodotti uber-Rai, che, ci si chiede, perché non li faccia la Rai. Ma forse perché la Rai più che produrre serie è sempre più lei la serie. Un corpaccione troppo abituato a produrre epica “interna” per fare qualcosa fuori. E così anche la serie “sulla Rai” non la fa la Rai; Boris venne lanciato infatti su Fox, ora si può vedere su Netflix (e la prossima stagione è in arrivo su Disney +).  


Così tutte le energie convergono sulla serie “interna”, a circuito chiuso. Il soggetto e  lo “storyboard” li scrivono a palazzo Chigi. Questo il soggetto: un gruppo di politici  decidono che la tv di Stato non deve essere governata da politici. Plot che non passerebbe mai le selezioni di Netflix, è evidente. Per non parlare di alcuni plot-twist arditi come l’intervista-spot del presidente della camera Fico durante l’intervallo di Italia-Svizzera agli Europei, trasmessa dallo stadio, tipo Jennifer Lopez al Superbowl (ma si può capirlo, le nomine Rai sono il Superbowl italiano).

 

Fico poi ha  detto che per la Rai “deve finire la cultura della lottizzazione”, e così è stata incaricata una società di head hunter per assoldare personaggi di primo piano per le due cariche (di solito in questi casi si farebbe riferimento alla Bbc, ma ultimamente con tutte le magagne su Diana, il “modello Bbc” non pare più spendibile, e forse a Londra qualcuno parlerà già di “modello Rai”). Insomma gli head hunter stanno cacciando, ma una volta che trovano manager bravissimi – possibilmente femmine – si scontrano col problema salariale. Quando questi personaggi di primo piano vengono contattati, emettono qualche segnale di orgoglio patriottico, ma poi di fronte al tetto di 240 mila euro annui sorridono, e riattaccano (e poi si chiamano tra di loro, raccontandosi: ma a te, ti hanno già chiamato? Duecentoquaranta cappa, come dicono questo tipo di persone,  è il joke dell’estate, passa di barca in barca a Ponza e a Paraggi).

 

Insomma siamo sempre lì: non ci sono solo i sindaci (8.000 euro al mese, che poi per una consuetudine farlocca i sindaci si sono sempre tagliati di circa la metà): si capisce perché son lavori che nessuno più vuol fare. E alla fine anche la Raggi, che tutti si preparano a confermare, e a darle alla fine l’indeterminato, dopo questo stage di cinque anni, potrebbe forse ambire a qualcosa di più nel privato. 

 

Ma anche il presidente e l'ad della Rai son mestieri complicati dove si guadagna poco. Dunque ulteriore lavorìo dei palazzi  prima della pausa estiva a trovare i nomi. Uno che gira è quello di Carlo Fuortes: manager culturale che è riuscito a trasformare uno dei carrozzoni più carrozzoni di Roma e quindi d’Italia e del mondo, il teatro dell’Opera, in un modello di efficienza. Se avesse un medagliere sarebbe più grande di quello di Figliuolo: ma la medaglia più grande che i suoi fan gli attribuiscono è per la battaglia del frack, quella in cui sconfisse i sindacati interni leggendari dell’Opera di Roma, quelli che chiedevano “l’indennità di frack”, per indossare la divisa che provocava irritazione e sudorazione.


“Non ci sono ricette magiche”; ha detto lui in un’intervista. “Credo che il segreto sia la qualità – qualità delle produzioni e delle scelte artistiche. La qualità è l’aspetto che il pubblico valuta con attenzione”. Già,  la qualità. “La qualità ci ha rotto il cazzo”, urlava il regista René Ferretti in “Boris”, la serie sulla Rai. Ma fatta all'esterno. 


 

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).