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L’Italia della tv invasa dai commissari

Da Ricciardi a Lolita Lobosco. Montalbano e i suoi fratelli

Francesco Palmieri

Un’originaria, insanabile infelicità ne ritaglia il carattere. La barba non rasata e il corrispettivo tacco 12. L’importanza strategica dei luoghi che qualche volta sfiora il folklorismo Un genere che funziona, meglio ancora se a latitudini meridionali: barocco & mafia in Val di Noto, cozze & pallottole sui lungomare di Napoli e Bari

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Non fu parente della più celebre Matilde, ma anche lui giornalista. Ernesto Serao, caporedattore del Mattino nella Belle époque, è ricordevole per almeno tre cose: la fluvialità della scrittura, che la rendeva ricca di notizie ma scarsa di sintesi; il contrasto tra il viso bambinesco e un fisico massiccio e torreggiante; la smania compulsiva di farcire ogni “pezzo” oltre l’immaginabile: “Mo’ chesto pure ce ’o mmetto”, secondo il giornalista Giovanni Artieri che lo conobbe, era la frase tipica di Serao seduto al desk. Più o meno un secolo dopo, lo scrittore Nicola Pugliese avrebbe attribuito la medesima espressione, con lo stesso vizio o vezzo, a un suo vecchio collega del quotidiano Roma. Segno che Ernesto Serao fu esempio, o archetipo, di un carattere umano sempre attuale al di là dei mutamenti nelle redazioni e negli usi stilistici.

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Non fu parente della più celebre Matilde, ma anche lui giornalista. Ernesto Serao, caporedattore del Mattino nella Belle époque, è ricordevole per almeno tre cose: la fluvialità della scrittura, che la rendeva ricca di notizie ma scarsa di sintesi; il contrasto tra il viso bambinesco e un fisico massiccio e torreggiante; la smania compulsiva di farcire ogni “pezzo” oltre l’immaginabile: “Mo’ chesto pure ce ’o mmetto”, secondo il giornalista Giovanni Artieri che lo conobbe, era la frase tipica di Serao seduto al desk. Più o meno un secolo dopo, lo scrittore Nicola Pugliese avrebbe attribuito la medesima espressione, con lo stesso vizio o vezzo, a un suo vecchio collega del quotidiano Roma. Segno che Ernesto Serao fu esempio, o archetipo, di un carattere umano sempre attuale al di là dei mutamenti nelle redazioni e negli usi stilistici.

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Un’infanzia problematica, un tormentoso (o torbido) passato, una nevrosi assillante. Poi perlomeno uno spruzzo di traumi sedimentati: “E adesso questo pure ce lo metto” si saranno detti – senza sapere del paradigmatico Serao – gli autori che hanno partorito i più recenti protagonisti dei gialli e polizieschi italiani migrati dai volumi al piccolo schermo, dalle collane editoriali alle produzioni Rai. Un’originaria, insanabile infelicità è reputata necessaria per ritagliare il carattere degli investigatori di ogni ordine e grado: pubblici ministeri, vicequestori, commissari, ispettori, marescialli, poliziotti e carabinieri (mentre è significativa la carenza di guardie di finanza in un paese non propriamente scevro dai reati tributari). Un’infelicità che neanche la crescente consistenza di quote rosa narrative ha colmato, dissipando l’illusione di un background più sereno fra le protagoniste donne. Il sostituto procuratore Imma Tataranni, autrice Mariolina Venezia, signoreggia sul marito e la figlia, sugli indagati e sui collaboratori con una dedizione parossistica al lavoro e la particolare abilità – rivendicata dal noto Jep Gambardella ma perfezionata da lei – di far fallire le feste, anche se le sole cui partecipa sono riunioni di famiglia. Le dà corpo, negli scenari materani riportati nella fiction, l’attrice Vanessa Scalera, talentuosa a teatro e immedesimata in tv nel suo personaggio dalla capigliatura rossa e dal corpicino segaligno mosso a passo di bersagliere, malgrado le zeppe per farsi più alta, tra i luoghi dei delitti e i corridoi della procura (arrancando la segue, leggiadro e ingenuo tentatore, l’appuntato dei carabinieri Calogiuri). E’ nevrosi allo stato puro, l’antipatia scattosa che ai primi della classe, ai solutori ostinati di compiti complessi, i professori perdonano sempre per forza e i compagni di classe invece mai.


Infelice malgrado la bellezza è anche Lolita Lobosco. Vicequestore a Bari nata dai romanzi di Gabriella Genisi, impersonata in tv con bellezza smagliante da Luisa Ranieri, Lolita mai potrà cancellare il peccato originale di essere figlia del contrabbandiere Petresine, il quale entrava e usciva di galera gonfiando – direbbero i freudiani – gli ondosi moti edipici che spinsero la piccola a sognare e realizzarsi una vita dalla parte opposta, fra i tutori della legge.


Forse agli autori, e chissà se anche a lettori e telespettatori, un’infanzia non diciamo felice ma ordinaria sembrerebbe appiattire il personaggio. Se un tempo avere un padre e una madre quantomeno normali era presupposto auspicabile, o minima aspettativa, adesso pare un intralcio, una diminuzione punitiva del Fato. Come quando giocando al Mercante in Fiera ti capitavano in sorte Il neonato oppure Funghi e carote, carte che per qualche arcano anatema non prendevano quasi mai un premio alla fine. Cosa racconterebbe uno scrittore d’oggi cresciuto in una casa senza traumi né violenze, senza disagi psichiatrici né problemi giudiziari? E quale seduzione emanerebbe un poliziotto che ha vinto il concorso al ministero dell’Interno in un contesto sereno? Il carisma grigiastro di Funghi e carote?

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Mica siamo più negli anni Sessanta e Settanta, quando la Rai proponeva il placido e rotondo Gino Cervi nei panni del commissario Maigret, confortato da una moglie casalinga e materna come Andreina Pagnani (che da giovane era stata bellissima ma pure lei, nella vita privata, al più poté vantare un lungo legame con l’antieroico Alberto Sordi). Nessun trauma infantile, tampoco un’aura da maudit aleggiava sul viso dantesco e ovviamente sbarbatissimo del sempre incravattato Ubaldo Lay, alias tenente Sheridan. Negli anni successivi, ancorché stazzonato, Peter Falk col tenente Colombo non avrebbe cambiato le cose né lo avrebbe fatto l’ispettore Derrick: malgrado la tristezza del cielo germanico e le borse sotto gli occhi, Horst Tappert con le sue cravatte da mercatino pure affascinava le attempate telespettatrici che per un quarto di secolo fidelizzò, senza che la mancanza di passato e di drammi familiari ne intaccassero la seduzione. Quei poliziotti vivevano le loro storie solo nel presente, anzi pareva che personaggi e interpreti fossero nati già com’erano e che fossero indenni dall’invecchiamento e dalla pensione. Bolliti ma dal futuro abolito.


Poi sarà successo qualcosa, per cui se sono sani e mediamente fortunati non li vogliamo più. Le prime avvisaglie giunsero con il maresciallo Rocca, un successo di audience straordinario che poggiava soprattutto sulla capacità di Gigi Proietti. Già vedovo con figli, perde pure la seconda donna (Stefania Sandrelli) per qualche crudeltà che gli dèi minori – tra cui i più capricciosi sono gli sceneggiatori – infliggono al destino dei brav’uomini. Si consolerà tra le braccia più rigide di una terza signora: l’austera Veronica Pivetti.
Infelice assai è il vicequestore di Antonio Manzini, Rocco Schiavone, con trascorsi borderline per le sue origini (sarebbe potuto diventare delinquente come gli amici trasteverini e invece etc. etc…). Come se non bastasse ha perduto la moglie Marina col cui fantasma intrattiene lunghi monologhi-dialoghi serali sia a Roma sia quando, per punizione, lo trasferiscono ad Aosta. Interprete televisivo ideale è Marco Giallini che fa Marco Giallini come una volta Claudio Amendola faceva se stesso: barba ovviamente lunga. Poetico cinismo col cuore alla romana secondo canone: burbero e indolente, ironico sul greve andante. Se Maigret s’accendeva la pipa persino a letto e quando era malato (ma di nascosto della moglie), Giallini ovviamente si fa le canne persino in ufficio, esibendo al lettore o telespettatore la forma di trasgressione più easy tra i Fantozzi e i Filini da trent’anni in qua. Lo spinello. Aveva ragione Alberto Savinio: “Il romanzo poliziesco costituisce uno degli alimenti più squisiti della gastronomia borghese”, assecondando “il bisogno di sensazioni violente, di potenti stimolanti” che esercitino la propria azione “ma in maniera indiretta e senza minimamente turbare la sua condizione sedentaria. Il motto del borghese è: godere seduto”.
Infelice della specie irascibile, con l’espressione che uno s’immagina quando twitta contro chi si cala la mascherina sanitaria o non spazza il marciapiede davanti casa è Alessandro Gassmann (in più del padre una “n”, in meno si sa) nei panni dell’ispettore Giuseppe Lojacono. E’ la serie I bastardi di Pizzofalcone, epopea piccola di un commissariato in dismissione dove viene spedito dalla Sicilia con il pesante e – ça va sans dire – ingiusto sospetto di collusioni con la mafia. Come se non bastasse, Lojacono (“Mo’ chesto pure ce ’o mmetto”) ha un difficilissimo rapporto con la già consorte e la figlia. Nel cast anche l’attore Gianfelice Imparato, presente dai tempi del corbucciano Giallo napoletano (1979) nella filmografia di genere partenopeo, come il pedaggio che uno paga quando arriva a Napoli dalla tangenziale. Lui è il collega anziano Giorgio Pisanelli, un vedovo che come Rocco Schiavone la sera a casa parla con la defunta moglie. Perché le idee, tra un autore e l’altro, riecheggiano e gli spunti poetici viralizzati finiscono per sciuparsi (lo sarebbe pure L’infinito di Leopardi se citato a corredo in due fiction diverse).

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L’obbligo dell’infelicità incombe, ma non sotto la barba lunga poiché è ambientato negli anni Trenta, anche sul commissario Luigi Alfredo Ricciardi, prima creatura del giallista napoletano Maurizio de Giovanni poi papà della serie su Pizzofalcone. I punti di share di Ricciardi, come quelli di Lolita Lobosco, danno ragione ai palinsesti. Piace la figura del commissario col volto di Lino Guanciale (bravo come un Giancarlo Giannini senza condimento), che ha il dono di “vedere” l’ultimo istante di vita di chi ha sofferto una morte violenta. Sulla base dei tragici fotogrammi, Ricciardi imbastisce l’indagine ma anche la propria vita, oscillante tra la paura di finire pazzo come sua mamma, che possedeva lo stesso dono medianico, e la difficoltà di esternare l’amore a una introversa dirimpettaia. Il glamour del protagonista, nella serie televisiva, è sostenuto dalle ambientazioni della Napoli anni Trenta che in realtà è rifatta a Taranto, mentre l’idea brillante del commissario medium s’era già spuntata nella scrittura, dove il vento sferza o sibila, il sole d’inverno è anemico, i tram sferragliano, le gambe delle belle donne sono tornite (ma quando sono serie hanno appena un filo di trucco) e le lucertole, inseguite, si volgono deluse se uno non le rincorre più.
Assolto l’obbligo dell’infelicità, i gialli fatti fiction ne prevedono un altro di carattere turistico: “La letteratura poliziesca di un paese scatta un’istantanea di quel paese. Zoomando fino ad arrivare a realtà più ridotte, il romanzo giallo descrive un ambiente. Una città, una regione”, osserva l’addetta ai lavori Eleonora Carta: “Il romanzo giallo italiano è da più parti stato definito ‘territoriale’, perché il luogo riveste un’importanza strategica, tanto da diventare a suo modo protagonista della vicenda”. Soltanto che, dalla Milano di Scerbanenco e dalla Torino di Fruttero e Lucentini il décalage ha condotto a un’accentuazione che sfiora il folklorismo. Non si può uscire da una puntata di Ricciardi senza le sfogliatelle o una pastiera e Lolita Lobosco deve fare jogging per evitare che cartellate e panzarotti le rovinino la linea (nemmeno la pm Tataranni, fra Matera e Metaponto, lesina sui bomboloni). E’ stata forse colpa delle mangiate tipiche del commissario Montalbano? E sono forse tutti sorelle e fratelli meno riusciti di Salvo quelli che popolano gli scaffali delle librerie e le serate di Rai Uno?

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Gli allievi non hanno certo superato il maestro, questo sì, specialmente perché il maestro Camilleri si portava nella penna i mondi di Sciascia e Pirandello che ricreava nella Vigata che esiste e non esiste (dopo avere curato, tra altre cose, anche la produzione delle vecchie serie Maigret). La differenza tra i menù turistici e una mangiata montalbanese sta già dentro poche righe di Riccardino, libro congedo al commissario uscito postumo con la costante intrusione dell’autore a dialogare con la sua creatura: “Ogni mangiata è un’avventura, la riuscita di ogni mangiata è affidata al caso. Basta un nenti, un sciauro straneo, un sapori eccessivo, ’na musca che tenta di posarisi supra al piatto, il vicino che parla a voci troppo àvuta, pirchì l’armonia della bona mangiata si frantumi senza speranza”. E Montalbano sa essere felice anche così, com’era felice Maigret con un cognac. O com’era felice il commissario De Vincenzi, creato da Augusto De Angelis negli anni Trenta e impersonato da Paolo Stoppa nella serie degli anni Settanta, quando la sua padrona di casa gli offriva un thermos di caffè al rientro da un’indagine spossante.

 
Roma, malgrado i ritmi lenti propri di un’èra televisiva pleistocenica, e sebbene le riprese fossero quasi tutte in interni, comunicava il suo profumo e il sapore di un’epoca negli episodi di De Vincenzi. Tra gli studi dell’Eiar e di Cinecittà. I riferimenti al regime fascista, sovrapposti ai romanzi di De Angelis, non mancano però non cascano nel folklorismo storico di Ricciardi, per cui ogni persona di alquanta importanza “è amica di… Lui (sottovoce)”; né la procedura per l’invio al confino politico è sostituita da una sparizione fisica più tipica del generale Videla o del maoismo.

 
Stucchevole filologia sicuramente, ma fa piacere quando se ne trova almeno un po’ anche senza pretendere le estreme cure de Il nome della rosa. Che poi, dovendo sceneggiatori e registi fare i conti con le Film Commission regionali, a complicare le cose non c’è solo la gastronomia ma la lingua. O meglio i dialetti. La polemica è riesplosa dopo la prima puntata della serie di Lolita, sul barese caricato o caricaturale imputato alla protagonista (Ranieri è tra l’altro napoletana), giudicato da qualcuno troppo simile alla grottesca parlata di Lino Banfi. Stessa questione per la Tataranni/Scalera, attrice originaria del Brindisino: i locutori materani hanno avvertito qualche sfumatura dissonante nelle sue sfuriate. Dovrebbe andare più liscio col napoletano, perché già nei romanzi basta elidere: dotto’ e brigadie’, e si consegue il risultato climatico. Al resto, cioè agli adempimenti per le Film Commission, provvedono le riprese panoramiche coi droni dei patrimoni naturali e artistici locali, con la bellezza (che, scriverebbe un giallista, è sempre “mozzafiato”) dei paesaggi urbani meridionali. Sorreggono le trame quando si fanno fragili e domandano il perdono per i cliché sul Sud, quelli che hanno fatto sbottare il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Enzo d’Errico: “Un luna-park di stereotipi nel quale si parla con cadenze dialettali da avanspettacolo”. “Un lezioso dépliant per amanti dell’esotismo a portata di mano e portafoglio”. Un buonanotte insomma alla “questione meridionale” in omaggio al “pittoresco”, “un impasto di nostalgia e folklore che se ne sta là, oltre il fiume Garigliano, e non dà fastidio a nessuno, un mondo a parte che ‘deve’ essere narrato così affinché rimanga prigioniero di sé stesso e dia conforto all’immaginario esotico del Nord e al (presunto) mito della diversità antropologica che tanti di noi, purtroppo, continuano ad allevare”.


Infelicità interiore. Felicità turistica. E poi cos’altro? Poi, nel caso di una protagonista femminile, il tacco 12 “pure ce ’o mmetto”. Quello che non ostacola la nevrotica marcia di Tataranni diventa simbolo dell’emancipazione nel mondo maschile ma senza la rinuncia alla propria femminilità, insomma un altro cliché, per Lolita Lobosco. E’ l’equivalente rosa della barba non rasata di cui, ai tempi di Ubaldo Lay e Marcello Mastroianni, la seduzione attoriale non aveva bisogno. La fisima delle calzature s’attaglia anche a L’allieva, ossia il giovane medico legale Alice Allevi. Creata una decina d’anni fa da Alessia Gazzola, è stata paragonata (non per i tacchi) alla Scarpetta di Patricia Cornwell. Interpretata, nella serie tv, da Alessandra Mastronardi, mise a tacere la diatriba dialettale ricadendo nella rassicurante e universalistica cadenza romana della fiction nazionale, con atmosfere interiori da diario di Bridget Jones che coprono di smalto i tavoli anatomici.


Il poliziesco, è vero, pare proprio l’istantanea di un paese. Ma ne costituisce pure la memoria: secondo un sondaggio svolto dalla Stampa nel 2019, l’investigatore preferito dagli italiani restava Montalbano con il 37 per cento seguito da Rocco Schiavone con il 22 per cento. Un sorprendente inossidato terzo posto a Maigret col 17 per cento e al quarto con il 9, superando Don Matteo, la Tataranni condivide la classifica con Laura Storm. Il risultato stupisce e testimonia l’età media dei lettori, perché le avventure di questa giornalista investigativa esperta di improbabile karate risalgono alle stagioni televisive 1965-1966 e al volto di Lauretta Masiero, croce e delizia del suo direttore Aldo Giuffré. Delegato alla produzione, manco a dirlo, fu ancora Camilleri. Né il problema dei tacchi né quello di eventuali cadenze dialettali, neppure gli scavi freudiani delle rispettive infanzie ossessionavano i personaggini di Laura Storm, che virava in commedia brillante, quasi scherzosa, le atmosfere della San Francisco immaginaria di Sheridan. Oggi s’annoierebbero anche i bambini e si rovinerebbero – suscitando le ire della commissione di vigilanza Rai – per l’uso e abuso di whisky e sigarette (che a differenza di allora fanno peccato e a differenza delle canne sono diventate la vera trasgressione). Veneziana la Masiero, napoletano Giuffré, il loro accento regionale non si sentiva né si doveva sentire. All’epoca gli attori di prosa e i diplomati all’Accademia Silvio D’Amico parlavano un italiano standard salvo centellinate, macchiettistiche eccezioni di personaggi secondari.


“Oggi i giallisti di giallo hanno solo l’evocazione, nel senso che sono le nuove pagine gialle” è l’opinione di Marco Ciriello (tra gli ultimi recensori feroci in attività): “Vuoi sapere a Genova se c’è ancora un ristorante dove mangiasti con quella che sembrava la donna della tua vita? Basta leggere il commissario che agisce a Genova. Vuoi sapere a Napoli che c’era prima nel palazzo dei tuoi nonni? E che ci vuole: romanzo giallo napoletano e zac! Vuoi sapere se a Bari c’è del buon sushi, se a Salerno ci sono gelaterie, e via così, e non sto disprezzando, anzi, abbiamo una florida narrativa commercial-turistica, infatti poi nascono gli itinerari dei commissari, i ristoranti, c’è un mercato, e quindi se poi l’indagine fa schifo, se il commissario non funziona, che importa? Hai già avuto tutte queste notizie”.


Solo un paese che c’è e non c’è, con una lingua che esiste e non esiste come il vigatese di Camilleri riparano il personaggio dai rischi folkloristici della trasposizione televisiva. E allora Salvo è salvo a differenza di sorelle e fratelli commissari, anche se il personaggio di carta deve subire il proprio doppio televisivo Luca Zingaretti (marito e coproduttore della Ranieri/Lobosco). Glielo spiega Camilleri a Montalbano nel prendersi reciproco congedo dal loro lungo gioco letterario: “E l’attori sarà sempri cchiù bravo di tia per almeno dù raggiuni: la prima è che l’attori sapi quello che sta per succidiri mentri che tu sei sempre costretto a ’mprovisari, la secunna è che lui ha studiato da attori e tu da commissario. La vuoi sapiri qual è l’unica, Montalbà? L’unica è che quanno trasmettono il programma che porta il nome tò, tu astuti la tilevisioni, nesci di casa e ti nni vai al ginematò a vidiri Paperino”.
Intanto, mentre mandiamo in macchina questo numero (come dicevano i giornalisti ai tempi del tenente Sheridan), probabilmente in ciascuno degli oltre ottomila comuni d’Italia c’è qualcuno che sta ticchettando la storia di un commissario con un nuovo nome, un tic, un proprio dramma seminascosto e un’infanzia amara (“Mo’ chesto pure ce ’o mmetto”). E con un peculiare dialetto che ne propizi la pubblicazione e l’auspicabile trasposizione in tv. Un commissario, almeno uno, per campanile o per collegio elettorale, un commissario etnico meglio se meridionale, barba lunga o tacco 12 a seconda del genere e delle maschere, come alle scuole elementari quando ancora si studiavano le regioni d’Italia tramite le differenze tra Arlecchino, Balanzone e Rugantino. Difatti la prima cosa che fa quando s’insedia nel suo ufficio il nuovo procuratore capo di Matera, impersonato dal partenopeo Carlo Buccirosso, è collocare sulla scrivania una statua di Pulcinella e pure il corno di terracotta, presentendo che la Tataranni non lo lascerà vivere tranquillo (“è ’nu pitbull vestuto ’a femmena”).


Se il giallo è l’istantanea di un paese, bisogna convenire che il vestiario dei luoghi comuni fu assai spoglio all’origine, se hanno ragione gli storici che attribuiscono a Francesco Mastriani la primogenitura italiana del genere con Il mio cadavere del 1851. C’è indagine sociale e c’è l’introspezione che non si rifugia nei cliché. Ma il povero Mastriani fu costretto a produrre scrittura per tutta una vita di sopravvivenza, sicché è incerto il numero delle sue opere e dei suoi traslochi per la città di Napoli. Ernesto Serao, che ne fu allievo ma non ne raggiunse la sfiga e l’altezza, mutò la lezione e con il “Mo’ chesto pure ce ’o mmetto” precedette la posterità, facendo molti meno cambi di casa benché potesse completare, racconta sempre Artieri, “un romanzo in una settimana, un dramma in sei atti in due giorni”. Mentre seguiva il famoso processo Cuocolo alla camorra, celebrato a Viterbo, dettava a braccio per telefono “innumeri pagine di giornali” che messe assieme formerebbero una biblioteca. Lui aveva visto da vicino, e conosciuto bene, fatti e figuri tristi che autrici e autori di molti polizieschi hanno soltanto immaginato o appreso, di seconda mano, dalla lettura dei quotidiani. Ma “pure ce li mettono”. E funziona lo stesso, meglio ancora se a latitudini meridionali: barocco & mafia in Val di Noto, crimini & sassi a Matera, cozze & pallottole sui lungomare di Napoli e di Bari. Ma qui già intravediamo Procida in prima posizione quale teatro delle prossime indagini. Ora che è stata designata Capitale italiana della cultura per il 2022, un commissario o un ispettore potranno mai mancare all’isola? Giallisti datevi da fare.

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