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“Fatto in Italia, guardato dal mondo”

Netflix sbarca a Roma e speriamo riesca là dove il cinema italiano fatica

Mariarosa Mancuso

La nuova sede aprirà a breve al Villino Rattazzi nei pressi di via Veneto. Sotto la direzione di Eleonora Andreatta, dal giugno scorso vicepresidente per le serie originali italiane. Notizia da festeggiare sparando i mortaretti, non solo per i posti di lavoro ma anche perché l'azienda progetta di raddoppiare la produzione di serie e film italiani entro il 2022

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Al momento, la sezione del sito di Netflix dedicata ai posti vacanti non segnala su Roma offerte di lavoro. Ce ne sono invece a Parigi, a Istanbul, a Mumbay, nella brasiliana Alphaville (prima di essere scelto per una località esclusiva a pochi chilometri da San Paolo, recintata da sessanta chilometri di muro, era il titolo di un film diretto da Jean-Luc Godard). L’azienda promette “colleghi simpatici e problemi da risolvere”. 

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Al momento, la sezione del sito di Netflix dedicata ai posti vacanti non segnala su Roma offerte di lavoro. Ce ne sono invece a Parigi, a Istanbul, a Mumbay, nella brasiliana Alphaville (prima di essere scelto per una località esclusiva a pochi chilometri da San Paolo, recintata da sessanta chilometri di muro, era il titolo di un film diretto da Jean-Luc Godard). L’azienda promette “colleghi simpatici e problemi da risolvere”. 

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Le offerte di lavoro arriveranno, per la nuova sede romana che Netflix aprirà a breve (chi dice nel secondo quadrimestre, chi nel secondo semestre del 2021). Saranno una quarantina, tra marketing, pubbliche relazioni, addetti e responsabili di produzione. Tutti al Villino Rattazzi di via Boncompagni, nei pressi dell’ambasciata americana e di via Veneto. Sotto la direzione di Eleonora Andreatta, dal giugno scorso vicepresidente per le serie originali italiane. 
   

A Netflix è arrivata da Rai Fiction, dove ha lavorato con successo a un compito che sembrava impossibile: dare dignità e respiro internazionale ai prodotti seriali italiani. Mai useremo la parola “fiction”, per indicare il (presunto) genere – vuol dire “finzione”, cioè storie inventate, e vale per tutto quel che non è documentario (o saggio). Era diventato sinonimo di sciatterie e smarmellamenti alla “Boris”, per non parlare delle vite dei santi o di altri personaggi notevoli che puntualmente inquadravano il letto di morte, e poi via di flashback per ricominciare da quando il pupo – più raramente la pupa – mostrava la sua precocissima vocazione.
     

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Notizia da festeggiare sparando i mortaretti (anche a rischio di irritare i promotori della “netflix italiana della cultura”, come pomposamente è stata pubblicizzata la piattaforma ITsART – sul sito dice “stiamo arrivando”). Non solo per le possibilità di lavoro aperte a giovani meritevoli. Netflix progetta di raddoppiare la produzione di serie e film italiani entro il 2022, già sul sito sfodera lo slogan “Made in Italy, watched by the World”. 
     

Fa il paio con gli annunci pubblicitari su “l’Italia piena di storie” che accompagnavano il film “L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” di Sydney Sibilia (obbligatorio citare anche il nome del produttore, Matteo Rovere). E la docu-serie “Sanpa – Luci e tenebre di San Patrignano”, diretto da Cosima Spender con menzione d’onore al montatore Valerio Bonelli: pochissimi secondi e l’immagine cambia, anche quando abbiamo una “testa parlante”, ovvero una persona intervistata. Roba che in Italia non si era mai vista: svecchia il genere e tiene lontana la noia.
      

Le storie ci sono, ma bisogna saperle raccontare. Ed è qui che Netflix – e prima di lei, per esempio, una serie come “Gomorra”: produzione Sky in napoletano stretto con sottotitoli – ha un enorme territorio da dissodare. Sperando che riesca là dove il cinema italiano ancora fatica (a parte qualche eccezione, ma sono talenti individuali, non artigiani capaci di lavorare in squadra). Primo: a insegnare la cura per le sceneggiature: le belle storie non si raccontano da sole. Secondo: a dare il ritmo (quello delle pionieristiche serie, non quelle che credono di essere un film di otto ore). Terzo: a convincere gli attori (e i registi) che certi modi di recitare appresi all’Accademia d’arte drammatica oggi risultano antichi come le smorfie del cinema muto. Tutti problemi che il cinema italiano avrebbe già dovuto risolvere da sé. In mancanza, capita che da fuori arrivi un Mario Draghi per dare una mano.

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