PUBBLICITÁ

il foglio del weekend

La forza della vecchiaia

Andrea Minuz

Nonostante Netflix, Amazon e lo streaming. La cara vecchia tv generalista resiste. Come Sanremo

PUBBLICITÁ

Cinquecento persone confinate in una bolla “Covid free” su una nave al largo del porto di Sanremo, custodite gelosamente, adeguatamente tamponate, portate su e giù dal Teatro Ariston con uno sciame di tender e scialuppe per tutta la durata del Festival. Non è più solo un’ipotesi fantasiosa, una provocazione surrealista o una puntata di “Ciao Darwin”, ma la probabile soluzione nazionale alla più grande emergenza del Paese travolto dalla pandemia. Perché cinema, teatri, sale da concerto sono ancora chiusi e non sappiamo quando riapriranno, ma “Sanremo senza pubblico è impensabile, non si può proprio fare”, come dice Amadeus. Ecco, quindi, una complessa trattativa Rai-Costa Crociere per aggirare la terza ondata, una partnership nautico-televisiva che ha già avuto l’ok del virologo Matteo Bassetti: “Dal punto di vista infettivologico, si può fare”, dunque si faccia. Questo pubblico dell’Ariston accampato nella Costa Smeralda, nave ammiraglia della Costa Crociere, è davvero un’immagine portentosa. Un’impresa degna di un film-documentario di Werner Herzog. E poi tutti i rimandi a una copiosa tradizione navale di intrepide gesta nazionali, D’Annunzio a bordo del Mas, il Rex di “Amarcord”, l’Achille Lauro, transatlantico e ospite fisso a Sanremo, l’epica migrante della “Diciotti”, “fateli scendere!”, anzi no, “portateli al Festival!”

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Cinquecento persone confinate in una bolla “Covid free” su una nave al largo del porto di Sanremo, custodite gelosamente, adeguatamente tamponate, portate su e giù dal Teatro Ariston con uno sciame di tender e scialuppe per tutta la durata del Festival. Non è più solo un’ipotesi fantasiosa, una provocazione surrealista o una puntata di “Ciao Darwin”, ma la probabile soluzione nazionale alla più grande emergenza del Paese travolto dalla pandemia. Perché cinema, teatri, sale da concerto sono ancora chiusi e non sappiamo quando riapriranno, ma “Sanremo senza pubblico è impensabile, non si può proprio fare”, come dice Amadeus. Ecco, quindi, una complessa trattativa Rai-Costa Crociere per aggirare la terza ondata, una partnership nautico-televisiva che ha già avuto l’ok del virologo Matteo Bassetti: “Dal punto di vista infettivologico, si può fare”, dunque si faccia. Questo pubblico dell’Ariston accampato nella Costa Smeralda, nave ammiraglia della Costa Crociere, è davvero un’immagine portentosa. Un’impresa degna di un film-documentario di Werner Herzog. E poi tutti i rimandi a una copiosa tradizione navale di intrepide gesta nazionali, D’Annunzio a bordo del Mas, il Rex di “Amarcord”, l’Achille Lauro, transatlantico e ospite fisso a Sanremo, l’epica migrante della “Diciotti”, “fateli scendere!”, anzi no, “portateli al Festival!”

PUBBLICITÁ

   
Il più importante rito televisivo dell’anno, l’unico spettacolo in grado di annichilire lo share delle dirette Conte durante il lockdown, potrebbe, col favore delle tenebre, delle zone rosse o di una terza ondata, battere i record d’ascolto di tutti i tempi. Gli italiani chiusi in casa, il Festival su RaiUno, gli spettatori dell’Ariston attraccati in randa. Quasi un’allegoria biblica. L’Arca di Sanremo spuntata fuori dal primo libro dell’Antico Testamento della televisione generalista che è, per l’appunto, il Festival, la tradizione immutabile, la memoria, la storia, l’origine di tutto. Sanremo se ne frega dello streaming, di Zoom, del “double screen”, della “digital disruption”, del “binge watching” (cosa c’è più “binge-watching” di cinque giorni di fila di Sanremo?). Casomai, tira fuori gli “Abba” e festeggia quello che per la televisione è stato un anno formidabile, celebrato a caratteri cubitali sui giornali: “I millenials riscoprono la tv”, “la pandemia fa crescere l’audience”, “il lockdown che fa rinascere la televisione”. Una televisione generalista data sempre per morta, sempre spacciata, infine resuscitata dal Covid, come uno zombie.

  

Televisione, d’altro canto, è una parola che oggi tiene insieme tutto: Hbo, Netflix, la “quality tv”, le grandi narrazioni delle serie e l’intrattenimento più “trash”, come scrivono Luca Barra e Fabio Guarnaccia in un bel libro appena uscito, (“SuperTele. Come guardare la televisione”, pp. 230, Minimum Fax). E’ una raccolta di saggi che nello spunto riprende un lavoro di Ethan Thompson e Jason Mittel, “How to Watch Television”, pubblicato nel 2013 per la New York University Press, ma adattato alla tv italiana, proprio come si fa coi format internazionali. Un volume per fare il punto sulla vecchia e nuova televisione, sottolineando anzitutto “l’importanza e la perdurante centralità del mezzo televisivo nel sistema dei media contemporaneo, la sua capacità di aggregazione pure in uno scenario digitale frammentato”. Da quando la parola non indica più quell’elettrodomestico destinato al salotto o alla cucina, la televisione è diventata una nebulosa sempre più complessa, dilatabile all’infinito, con dentro le cose più vecchie e le sperimentazioni più audaci, un flusso ininterrotto che va da Mara Venier a “The Morning Show” su AppleTv, da “Non è la D’Urso” a “Game of Thrones”.

PUBBLICITÁ

 

Sfilano così programmi, serie tv, personaggi che diventano l’innesco di analisi specifiche o riflessioni più ampie. C’è la vecchia televisione che resiste e non cede al cambiamento, c’è la televisione che sperimenta, innova, crea, insegue nuovi linguaggi e nuovi target. Ma proprio nella sua vecchiaia, la televisione italiana – una televisione in cui il termine “showrunner” è più adatto per Maria De Filippi che “Gomorra” o “Suburra” – continua a rappresentare un punto di osservazione privilegiato per scrutare l’antropologia nazionale. Una valanga di programmi che hanno infondo come modello la perennità del “Festival”, che aspirano a diventare un rito transgenerazionale, riproducendosi in una liturgia sempre identica a sé stessa, come la messa (che però a un certo punto abbandonò il latino). Qualche numero: quarantacinque edizioni di “Domenica In”, trentatré di “Striscia la notizia” e “Chi l’ha visto”, trentuno di “La vita in diretta”, ventisei delle “Iene”, “Porta a Porta”, “Amici”, venticinque di “Uomini e donne”. Lo scorso sabato, Maria De Filippi ha aperto la duecentotrentottesima puntata di “C’è posta per te”, entrato così nella sua ventiquattresima stagione. I numeri defilippici sono ancora più impressionanti perché a differenza degli altri format non c’è neanche il cambio di rete o conduzione (d’altro canto impossibile: i programmi di Maria De Filippi esistono solo come emanazione diretta di Maria De Filippi). Ma un po’ tutta la generalista italiana è una televisione a tempo indeterminato. Col canone o senza. Un unico palinsesto per tre generazioni di spettatori. Ci tramanderemo i format di Maria De Filippi come una nuova forma di culturale orale: mentre i miei genitori vedevano “Canzonissima” o “Studio Uno” e io “Fantastico” o “Carramba”, mia figlia potrà vedere la quarantottesima edizione di “C’è posta per te” insieme a me. “Dalla prima edizione a oggi”, scrive Fabio Guarnaccia nel suo saggio dedicato a Maria De Filippi, “non solo il mondo ma anche la televisione sono cambiati radicalmente: la somma delle reti generaliste nel 2000 faceva il 92,6 per cento dell’ascolto complessivo, mentre oggi fa il 76,6 per cento; il numero dei canali a disposizione era meno di dieci, mentre oggi è più di cento, senza contare Netflix, Amazon Prime Video, Disney+, YouTube; e persino Grande Fratello dopo alti e bassi ha cambiato la sua formula e oggi è un programma diverso da quello che vide l’affermazione nazionalpop di Pietro Taricone, mentre C’è posta per te è rimasto più o meno lo stesso”.

 

La forza della narrazione defilippica è la ripetizione della formula, la moltiplicazione dell’identico, la litania che a ogni puntata riafferma “il mistero di Maria”. Le storie sono sempre le stesse ma non importa, perché, “la loro forza non è nella varietà, quanto nel meccanismo di esplosione controllata delle emozioni che ogni volta è messo in scena”. Così, “non stupisce che ad ogni edizione, da vent’anni, il pubblico veda in Maria De Filippi un aiuto concreto alla risoluzione dei dolori privati, una sorta di maestro Manzi dell’analfabetismo affettivo di massa”. Se Maria De Filippi affonda a piene mani nelle storie e nel vissuto della provincia italiana (“la provincia è dentro di noi”, dice sempre Maria), Barbara D’Urso pesca a strascico su internet. Tutta la vecchia televisione, dal trash all’informazione politica, ha tentato in questi anni varie e spericolate forme di integrazione coi social (i tweet alla lavagna di “Propaganda Live”, il “sentiment” di “Carta Bianca”), ma solo Barbara D’Urso ha messo in atto una campagna acquisti sistematica di freaks presi da internet e lanciati dentro i suoi programmi. Come scrive Alice Olivieri, “la cosa più intelligente fatta da Barbara D’Urso, nonché la stessa che la rende così potente in termini mediali, è stato individuare il rapporto di mutuo soccorso che può esistere tra la televisione e internet”.

 

PUBBLICITÁ

Se qualcuno diventa virale sui social, e Barbara D’Urso ne intuisce il potenziale, lo vedremo prima o poi a “Domenica Live”. Ma c’è anche tutta una fenomenologia delle conduttrici italiane e di “gender stereotypes” (costruiti anzitutto per il target femminile) che si dipana tra le pagine del libro. La “zia Mara”, semplice, spontanea, caciarona, un po’ pettegola, una con cui rilassarsi subito dopo pranzo, sul divano, con le pastarelle, secondo un modello “resistente” di pranzo della domenica italiana. Oppure, Antonella Clerici, altro modello di “conduttrice-rete”, la cuoca, la mamma serena, rassicurante, realizzata, costruita in un gioco di specchi con l’immagine della Rai, oppure Milly Carlucci, la variante “queer” e “camp”, con trascorsi glitterati di pattinatrice artistica che la legittimano come presentatrice di “Ballando con le stelle”.

PUBBLICITÁ

 

Mentre Barbara D’Urso, regina dei reality, “attraverso un lavoro meticoloso e costante” porta avanti il suo grande progetto di “diventare la versione italiana di Oprah Winfrey”, la sola persona che segue su Instagram, Simona Ventura incarna, nella sua turbolenta parabola artistica e soprattutto con il mantra che la rese celebre ai tempi dell’“Isola” (“Crederci sempre, arrendersi mai”), un po’ tutte le trasformazioni della tv di questi ultimi trent’anni: la sua ostinata, tenace resistenza alle intemperie tecnologiche, alle trasformazioni dei consumi e delle nostre abitudini. Il “come guardare la televisione” del titolo del libro va difatti preso alla lettera. Per esempio, negli ultimi tre mesi, il canale più visto sul computer dagli italiani è stato La7. Mediaset è al primo posto nella tv vista sugli smartphone, Sky la migliore su tablet. Abbastanza male invece la Rai, nonostante gli investimenti su RaiPlay e il lancio in grande stile con Fiorello. La domanda di innovazione, il ricambio di idee e format, la “streaming revolution”, dovrà pur sempre tenere conto del fatto che in Italia il programma televisivo più visto sul web nel 2020 è stato “Uomini e donne”. E mettiamoci anche, già che ci siamo, Barbara D’Urso eletta personaggio più significativo del decennio da un sondaggio lanciato dal Corriere della Sera nel 2019. 

PUBBLICITÁ

  
L’anno della pandemia non ha solo rilanciato la visione familiare e il soggiorno. Ha anche ricordato quanto la diretta televisiva sia ancora un racconto potente e irrinunciabile di ogni grande evento mediale. Per esempio, durante l’assedio di Capitol Hill eravamo tutti increduli su Twitter a scrollare notizie, video, immagini, aggiornamenti continui e in tempo reale. Però aspettavamo anche con trepidazione l’arrivo di un qualche Tg sul caro vecchio televisore (ed era in effetti surreale questo scollamento tra i nostri “second screen” in cui veniva giù l’America e Proud Boys e sciamani gironzolavano nelle sale del Congresso a farsi i selfie, mentre Amadeus su RaiUno scrutava i lineamenti del “parente misterioso”, nel climax dei “Soliti ignoti”). Nell’epoca delle piattaforme e della digital disruption, finché non parte il collegamento di Mentana, finché non vediamo l’inviato del Tg1, finché non parte lo “speciale” di Barbara Palombelli a “Stasera Italia”, manca ancora qualcosa. Anzi, non è detto che quello che sta succedendo stia succedendo davvero. Infondo, la “Maratona Mentana” mette insieme proprio questa ricerca di racconto e coerenza narrativa dentro una molteplicità di schermi,  come quelli sempre accesi dentro lo studio di Mentana. “Utilizzando una vera e propria logica antitelevisiva”, scrive Giovanni Boccia Artieri nel suo contributo, “la Maratona produce continuità dove c’è frammentazione di palinsesto, lunghezza dove si privilegia velocità, costruzione dell’informazione in divenire al posto della selezione di news”. Un racconto compulsivo che mette dentro un po’ tutto, anche un pezzo di “Project X – una festa che spacca”, scambiato per un drammatico “live footage” da Capitol Hill, e commentato in diretta con Gerardo Greco nell’edizione straordinaria della maratona golpista americana.

 

La vecchia tv è insomma ancora il nostro riflesso condizionato, il contenitore ultimo e legittimo delle grandi cerimonie dei media (anche di fronte al successo di un’operazione come il documentario Netflix su San Patrignano non si fa altro che ripetere “ma perché non l’ha fatto la Rai?”). I grandi eventi mediali, le dirette, le messe del Papa, gli assalti al Congresso, sono ancora il grande capitale della tv generalista. Però anche qui l’ascesa della Silicon Valley appare inarrestabile. Amazon ha appena fatto un’offerta per il campionato di Serie A. Netflix sta testando un canale con palinsesto in diretta, modellato sulla tv tradizionale. Attrezziamoci per il futuro, perché forse le dirette dell’undicesimo governo Conte le seguiremo anche lì. 
  

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ