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Quarant’anni di Canale 5

Michele Masneri e Andrea Minuz

Dall’èra citofonica alla dimensione internazionale. Origini, storia ed epopea della tv privata – moderna, colorata, spregiudicata – che ha catapultato l’Italia fuori dagli anni Settanta e l’ha cambiata in meglio

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Sarà il lockdown, sarà che il palinsesto delle conferenze di Conte in prima serata ha stufato, saranno le minacce di crisi (una poltrona per due con Renzi?); sarà che il Natale porta con sé immancabilmente la nostalgia. Però attaccati al teleschermo viene in mente la televisione anni Settanta tutta uguale, a prevalenza Rai, in bianco e nero. Certo c’è il colore delle zone gialle che a volte diventano arancioni, ma questo Natale è un grigio foglio di autocertificazione. Ecco dunque una gran voglia di libertà, di colore, d’anarchia: e anche, pensandoci, di quello che fu l’epoca e l’epica delle tv private di quarant’anni fa. E, tra i tanti anniversari minori,  forse sarebbe ora di una celebrazione apartitica e apolitica, tralasciando la figura del Cav. politico, ma in chiave prettamente pop, di cos’è stata la rivoluzione del 1980, la nascita di Canale 5 e del suo antenato TeleMilano 58. Una mostra di Vezzoli, un qualcosa al museo del Novecento di Milano, almeno in Bicocca: comunque servirebbe qualcosa, a celebrare la più grande impresa immaginifica del secondo Novecento italiano: che non può passare così, inosservata e trista come un dpcm.  
  
AM: Canale 5 come un grande incubatore degli anni Ottanta, faro e apripista di un decennio portentoso, il pezzo di boom economico che ci mancava, l’ultimo miglio: avevamo la tv in casa, ma non avevamo i canali. Ecco, quindi, dopo le automobili prese a rate, la lavastoviglie, il frigorifero, la villeggiatura, le seconde case, una tv finalmente moderna, americana, colorata, spregiudicata, non paternalistica e senza canone, che ci catapultava fuori dagli anni Settanta (e solo per questo non si ringrazierà mai abbastanza il Cav.).
  
MM: Tutto nasce dall’immobiliare, grande ossessione psicologica in Italia. TeleMilano nasce citofonica, nasce cioè – e siamo al materialismo storico, la struttura che crea la sovrastruttura – come esigenza di riempire di contenuti (ma all’epoca non si diceva ancora così) quel canale in più libero per gli appartamenti e le villette di Milano 2, gated community creata dal Cav. che all’epoca era solo e soltanto immobiliarista. Dal suo odio per le antenne – averne troppe avrebbe sfigurato quei tetti tutti uguali, quel borgo di borghesia come lui doveva immaginare l’Italia. E dunque sistemi integrati, Rai e videocitofono tutto insieme nello stesso cavo, ma a quel punto dei sei canali che il cavo porta ne rimane uno libero: e perché non riempirlo, quel vuoto? Vanno in onda così i primi programmi, che, incredibilmente, funzionano. Dopo qualche mese Berlusconi capisce che quello sarà il business del futuro e molla l’immobiliare al fratello e si butta sulle tv. 
  
AM: Perché l’immobiliare era un incunabolo di vincoli e permessi, un martirologio di licenze, sovrintendenze, bolli, tangenti, cantieri coi picchetti e Tar del Lazio. La televisione privata, invece, una splendida e incontaminata “no man’s land” italiana. Una falla del sistema, uno spazio non ancora presidiato dalla burocrazia e, si sa, le grandi rivoluzioni si fanno solo nell’incertezza legislativa. Fu così per Hollywood, fu così per Internet e i Social. Insomma, possiamo dirlo: TeleMilano è stata la nostra Silicon Valley; un grande laboratorio di creatività e modernità e spericolate sperimentazioni tecnologiche. Proprio come laggiù in California anche qui tutto inizia nei garage e negli scantinati, e c’è la stessa impudenza, la stessa euforia libertaria dei pionieri della digital revolution, solo con Mike Bongiorno e il Cav. al posto di Bill Gates e Steve Jobs.
  
MM: E’ una saga americana, e c’è un americanismo di Berlusconi, la visionarietà, il fottersene delle regole, molto siliconvallico, tutto ciò che non è vietato è permesso, l’idea di ammassare frequenze su e giù per l’Italia e fare una finta diretta spedendo le videocassette in aereo da Trento a Palermo. Ma c’è un altro tocco americano: quello di Mike Bongiorno, sintesi di milanesità yankee: già in carcere col partigiano-presidente Sandro Pertini, Bongiorno nel 1978 accetta di condurre i primi programmi di quella tv sconosciuta e diventarne “direttore artistico”. Era sicuramente l’unico che avrebbe potuto cogliere quella sfida, e certo, l’avranno pagato bene, però è incredibile come quello che è uno dei due anchor più famosi d’Italia accetta di andare a lavorare per una sconosciuta azienda milanese ancora citofonica. E lì c’è tutta la temerarietà e di nuovo la visionarietà americana, l’idea del sogno, del dream big.
  
AM: “I sogni nel cassetto”, si chiama appunto il primo format di Telemilano con Mike Bongiorno. Qui siamo davvero nell’epica omerica. Un format molto avanti sui tempi: Un uomo qualunque scelto in studio a caso tra il pubblico doveva aprire nel minor tempo possibile una serie di cassetti. Dentro i cassetti potevano esserci dei “sogni”, cioè dei buoni acquisto in grandi magazzini. Insomma, il cashback di Conte.
  
MM: “Vi ho già spiegato tante volte che nelle emittenti private ci vogliono gli sponsor”, annuncia Mike durante una puntata. “Quindi questa sera di tanto in tanto faremo qualche menzione pubblicitaria”. La pubblicità irrompe nella placida vita statale e monocanale degli italiani anni Settanta: non garage di Palo Alto ma sotterraneo del Jolly Hotel di Milano 2: lì  viene consegnata una busta piena di gettoni, per i telefoni pubblici da cui dovranno chiamare tutti i possibili inserzionisti, i nuovi assunti del Biscione. “Ecco, comincia a fare le telefonate” ha raccontato di essersi sentito dire Pier Carlo Pospi, responsabile pubblicità di TeleMilano 58, nel documentario “Telemilano 58” fatto dalla rivista Link.

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Sarà il lockdown, sarà che il palinsesto delle conferenze di Conte in prima serata ha stufato, saranno le minacce di crisi (una poltrona per due con Renzi?); sarà che il Natale porta con sé immancabilmente la nostalgia. Però attaccati al teleschermo viene in mente la televisione anni Settanta tutta uguale, a prevalenza Rai, in bianco e nero. Certo c’è il colore delle zone gialle che a volte diventano arancioni, ma questo Natale è un grigio foglio di autocertificazione. Ecco dunque una gran voglia di libertà, di colore, d’anarchia: e anche, pensandoci, di quello che fu l’epoca e l’epica delle tv private di quarant’anni fa. E, tra i tanti anniversari minori,  forse sarebbe ora di una celebrazione apartitica e apolitica, tralasciando la figura del Cav. politico, ma in chiave prettamente pop, di cos’è stata la rivoluzione del 1980, la nascita di Canale 5 e del suo antenato TeleMilano 58. Una mostra di Vezzoli, un qualcosa al museo del Novecento di Milano, almeno in Bicocca: comunque servirebbe qualcosa, a celebrare la più grande impresa immaginifica del secondo Novecento italiano: che non può passare così, inosservata e trista come un dpcm.  
  
AM: Canale 5 come un grande incubatore degli anni Ottanta, faro e apripista di un decennio portentoso, il pezzo di boom economico che ci mancava, l’ultimo miglio: avevamo la tv in casa, ma non avevamo i canali. Ecco, quindi, dopo le automobili prese a rate, la lavastoviglie, il frigorifero, la villeggiatura, le seconde case, una tv finalmente moderna, americana, colorata, spregiudicata, non paternalistica e senza canone, che ci catapultava fuori dagli anni Settanta (e solo per questo non si ringrazierà mai abbastanza il Cav.).
  
MM: Tutto nasce dall’immobiliare, grande ossessione psicologica in Italia. TeleMilano nasce citofonica, nasce cioè – e siamo al materialismo storico, la struttura che crea la sovrastruttura – come esigenza di riempire di contenuti (ma all’epoca non si diceva ancora così) quel canale in più libero per gli appartamenti e le villette di Milano 2, gated community creata dal Cav. che all’epoca era solo e soltanto immobiliarista. Dal suo odio per le antenne – averne troppe avrebbe sfigurato quei tetti tutti uguali, quel borgo di borghesia come lui doveva immaginare l’Italia. E dunque sistemi integrati, Rai e videocitofono tutto insieme nello stesso cavo, ma a quel punto dei sei canali che il cavo porta ne rimane uno libero: e perché non riempirlo, quel vuoto? Vanno in onda così i primi programmi, che, incredibilmente, funzionano. Dopo qualche mese Berlusconi capisce che quello sarà il business del futuro e molla l’immobiliare al fratello e si butta sulle tv. 
  
AM: Perché l’immobiliare era un incunabolo di vincoli e permessi, un martirologio di licenze, sovrintendenze, bolli, tangenti, cantieri coi picchetti e Tar del Lazio. La televisione privata, invece, una splendida e incontaminata “no man’s land” italiana. Una falla del sistema, uno spazio non ancora presidiato dalla burocrazia e, si sa, le grandi rivoluzioni si fanno solo nell’incertezza legislativa. Fu così per Hollywood, fu così per Internet e i Social. Insomma, possiamo dirlo: TeleMilano è stata la nostra Silicon Valley; un grande laboratorio di creatività e modernità e spericolate sperimentazioni tecnologiche. Proprio come laggiù in California anche qui tutto inizia nei garage e negli scantinati, e c’è la stessa impudenza, la stessa euforia libertaria dei pionieri della digital revolution, solo con Mike Bongiorno e il Cav. al posto di Bill Gates e Steve Jobs.
  
MM: E’ una saga americana, e c’è un americanismo di Berlusconi, la visionarietà, il fottersene delle regole, molto siliconvallico, tutto ciò che non è vietato è permesso, l’idea di ammassare frequenze su e giù per l’Italia e fare una finta diretta spedendo le videocassette in aereo da Trento a Palermo. Ma c’è un altro tocco americano: quello di Mike Bongiorno, sintesi di milanesità yankee: già in carcere col partigiano-presidente Sandro Pertini, Bongiorno nel 1978 accetta di condurre i primi programmi di quella tv sconosciuta e diventarne “direttore artistico”. Era sicuramente l’unico che avrebbe potuto cogliere quella sfida, e certo, l’avranno pagato bene, però è incredibile come quello che è uno dei due anchor più famosi d’Italia accetta di andare a lavorare per una sconosciuta azienda milanese ancora citofonica. E lì c’è tutta la temerarietà e di nuovo la visionarietà americana, l’idea del sogno, del dream big.
  
AM: “I sogni nel cassetto”, si chiama appunto il primo format di Telemilano con Mike Bongiorno. Qui siamo davvero nell’epica omerica. Un format molto avanti sui tempi: Un uomo qualunque scelto in studio a caso tra il pubblico doveva aprire nel minor tempo possibile una serie di cassetti. Dentro i cassetti potevano esserci dei “sogni”, cioè dei buoni acquisto in grandi magazzini. Insomma, il cashback di Conte.
  
MM: “Vi ho già spiegato tante volte che nelle emittenti private ci vogliono gli sponsor”, annuncia Mike durante una puntata. “Quindi questa sera di tanto in tanto faremo qualche menzione pubblicitaria”. La pubblicità irrompe nella placida vita statale e monocanale degli italiani anni Settanta: non garage di Palo Alto ma sotterraneo del Jolly Hotel di Milano 2: lì  viene consegnata una busta piena di gettoni, per i telefoni pubblici da cui dovranno chiamare tutti i possibili inserzionisti, i nuovi assunti del Biscione. “Ecco, comincia a fare le telefonate” ha raccontato di essersi sentito dire Pier Carlo Pospi, responsabile pubblicità di TeleMilano 58, nel documentario “Telemilano 58” fatto dalla rivista Link.

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AM: La pubblicità, certo. Come quella degli assorbenti e dei prodotti di igiene intima femminile, un repertorio all’epoca escluso o mal tollerato in Rai per questioni vaticane. A Canale 5 si apre dunque tutta una fetta di mercato. E via con “l’ultra sottile Serena” e la sua “fibra rivoluzionaria” e il “Lines mini invisibile” il “salvaslip Carefree”. D’altro canto, Canale occupò subito lo spazio del mattino lasciato scoperto dalla Rai (che partiva alle undici) e il suo target di casalinghe. I colossi delle multinazionali tipo Procter & Gamble si buttarono subito su questa nuova fascia di mercato, nuova, va da sé, per noi. Ma in  questa mostra di Vezzoli tutta da fare (ci offriamo di scrivere il catalogo) non si può che partire col “Mundialito”, il torneo messo su – pare – con la consulenza di Licio Gelli e l’obiettivo di far vincere l’Uruguay, all’epoca governato dai militari, e l’Uruguay in effetti vinse. Il “Mundialito” fu un caso politico tutto italiano e la vera invenzione di Canale 5. Una televisione privata aveva comprato i diritti dell’evento sportivo ma non poteva trasmettere le partite della Nazionale. Ora, ti viene in mente una mossa più rapida, geniale, perfetta per mostrare a tutti gli italiani in un colpo solo le maglie insopportabili della loro burocrazia, le arretratezze, le ingiustizie, le ottusità delle normative del nostro paese? A me no. 

 
MM: Tutti i giornali si mobilitarono. Poi si trovò una soluzione al dpcm di Natale: “Diretta tv per le partite della Nazionale su Canale 5 per la sola Lombardia, sulla Rai nel resto d’Italia; diretta delle partite delle altre squadre sulla Rai in tutto il territorio e in differita su Canale 5”. Fu la discesa in campo di Canale 5. La nascita del duopolio.

 
AM: La sigla del “Mundialito” di Canale 5 era firmata da Valeriu Lazarov, scappato dalla Romania di Ceauşescu e con una certa esperienza di elettronica e computer grafica sviluppata in America. Arrivato a TeleMilano, Lazarov si rende conto che dovrà improvvisare quasi dal nulla, con una vecchia telecamera trovata per caso in magazzino. E lui tira fuori questo balletto un po’ samba di Piero Piccioni, un po’ carnevale di Rio, con Stefania Rotolo immersa nei colori della nazionale rumena. Un capolavoro.

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MM: Era tutto un inventarsi cose senza schemi prefissati: giovani registi improvvisavano in diretta effetti speciali. Claudio Lippi si vede scontornato su un improvviso “green.  Giorgio Medail, architetto di stanza a Telenord, si improvvisa “intervistatore mascherato”, davanti a una telecamera, una specie di precursore del Gabibbo o delle Iene, a intervistare i milanesi. Nelle cantine di un bar di Milano 2 Mike Bongiorno convoca Claudio Cecchetto, sconosciuto dj di “Radio Milano International”, all’epoca noto solo come “Claudio”, diplomato all’Itis, per fare un programma musicale che si chiamerà “Chewing gum”. Berlusconi offriva libertà totale, soldi, e per chi volesse, la splendida cornice di un appartamento gratis a Milano 2. Il discorso inaugurale del Cav. è leggendario. “Non è facile fare una televisione commerciale, credetemi”, duce Berlusconi col ciuffo e il nodo della cravatta da poliziottesco. “Non c’è il, know how, non ci sono i tennici”. Uno Steve Jobs brianzolo, non col dolcevita ma col cravattone.

  
AM: E infatti la scelta americanizzante di Canale 5 fu più che altro obbligata. L’idea di un progetto cultural-ideologico, di un’invasione programmata dei consumi per cambiare il nostro stile di vita è fortemente esagerata. Piace agli adepti della Scuola di Francoforte, ma non sta in piedi. La verità è che Berlusconi cercò a lungo e invano nel mercato europeo telefilm e serial da portare in Italia, anche perché costavano meno. Ma avevano tutti, come diceva lui, “un ritmo narrativo lentissimo, assolutamente non funzionale alle nostre esigenze pubblicitarie”. Canale 5 sperimentava infatti anche le prime forme di binge-watching con trent’anni di anticipo. “Dallas” veniva mandato a ripetizione in due puntate, in due serate consecutive. Una cosa mai vista da noi e credo neanche in America. 

 
MM: è anche incredibile che tutta la celebrazione delle radio libere, le varie Radiofreccia, i Vasco Rossi, i dj identitari e libertari, la continua scansione del ventennio 70-80 saccheggiato in tutti i suoi immaginari abbia lasciato fuori completamente l’epopea di canale 5. Come te lo spieghi?
AM: Ma è chiaro. Canale 5 gli rovina il quadretto di famiglia. Tutta la retorica della riappropriazione “dal basso” degli strumenti dell’informazione, i pamphlet di Roberto Faenza, gli editoriali di Scalfari sulla “libertà d’antenna” (“L’Espresso”, 23 gennaio 1972), le radio libere, tutta quella roba lì deve stare dentro lo storytelling degli anni Settanta. La battaglia libertaria per “TeleMilano” non è funzionale. Viene fuori un’unica grande Chiesa da “Lotta Continua” a “Tv Sorrisi & Canzoni”, che è quello che siamo. 


MM:  Invece la saga berlusconiana viene spinta di peso nei vituperati Ottanta (dunque non più radio libere e controcultura ma Milano da bere, corruttela, disimpegno, edonismo, assorbenti). Però storicamente è una forzatura, perché tutto nasce nel ’78. Sfasature temporali.

 

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Il miracolo del Cav.. La televisione del Biscione accorciò le distanze tra la pedagogia di stato e la libertà dell’americanissima tv via cavo. Da Mike Bongiorno al “Mundialito”, dal fenomeno  “Dallas” all’invenzione dei formidabili Telegatti

  

AM: Comunque per me l’arrivo di Canale 5 è lo sbarco in Normandia, il V-Day, la Liberazione.  La possibilità, data a tutti e gratis, di accorciare le distanze tra la pedagogia di Stato e la meravigliosa tv via cavo americana. Certo, ci arrivavano gli avanzi di magazzino e arrivavano in una surreale sfasatura temporale. Per esempio, non capivo bene come mai nel pieno degli anni Ottanta paninari e ingelatinati tutti i miei idoli telefilmici, Bo e Luke, Arnold, i Bradford avessero jeans a campana e capigliature afro e camicie con colletti giganteschi, come quelli dei miei genitori nelle foto sul comodino in camera da letto. Qualcosa non tornava. In quel momento però non ci facevo troppo caso. Era tutto comunque meglio e di più di quello che c’era prima. Ora, per dare un’idea al nostro giovane lettore cresciuto (beato lui) con la playstation e Internet, per dare un’idea, dicevo, di cosa fossero quegli anni Settanta idolatrati dalla sua professoressa di Italiano a scuola e sempre impugnati contro la “risacca” del decennio successivo, sarà utile ricordargli un palinsesto di una domenica qualsiasi su RaiUno: Ore 11.00: Santa messa; ore 12.00: “La giungla retributiva” (rubrica d’attualità); ore 12.15: “Agricoltura domani”; poi una botta di vita con “Discoring” alle 14.30, alle 19.00 la “cronaca di un tempo di una partita di serie A” (solo un tempo), alle 20.00 il “Telegiornale”, alle 21.00, “I Demoni”, di Sandro Bolchi, con Luigi Vannucchi che faceva Stavrogin; alle 22.30, chiusura scoppiettante con “Tribuna sindacale interviste: La Cisnal”. Poi il monoscopio Rai, fisso, immobile, fino al giorno dopo. Un’idea molto sovietica di entertainment.  

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Se oggi siamo ai “ristori” e alle “cappelliere di vestibolo” nel nuovo linguaggio ferroviario-contiano è colpa delle tribune politiche

 
MM: Si parla sempre di cosa ha fatto la tv di Berlusconi agli italiani, ma mai si dice cosa ci ha fatto la Rai. Secondo me se oggi siamo ai “ristori” e alle “cappelliere di vestibolo” nel nuovo linguaggio ferroviario-contiano è colpa delle tribune politiche, non di Dallas. 

 
AM: Poi invece arriva Canale 5, la sua marea di film americani, di grandi classici di Hollywood comprati a stock. 

 
MM: Già, i film: semplicemente non c’erano. Nel 1980 la Rai ne trasmetteva in tutto sei alla settimana. Pochissimi anche i “telefilm” (non ancora “serie”) e completamente assenti le soap opera.  Rete4, che nasce nel 1982 da Mondadori e solo due anni dopo diventerà berlusconiana, lancerà poi “i Bellissimi” annunciati dalla sexy Emanuela Folliero, e fa sognare gli italiani, molto prima prima di diventare la nostra Fox News cara ai “retequattristi”. Berlusconi comincia a comprare film a mani basse dalla Titanus.

 

AM: L’accoppiata tette della Folliero + film hollywoodiano come antitesi all’arthouse iniziatico di “FuoriOrario”, con Enrico Ghezzi fuori-sinc. Una controprogrammazione impeccabile. A fare la spola tra questi due canoni opposti c’era poi la mediazione culturale dei Vhs dell’“Unità” di Veltroni. America hollywoodiana, cinefilia francese e “ma anche” veltronico: una lottizzazione cinematografica perfetta. Oggi è tutto sdoganato, ma all’epoca i “Bellissimi” retequattristi erano ancora in odore di “imperialismo”. Chissà quanti cinephiles neorealisti se li guardavano di nascosto. Sul cinema di Canale5 c’è un aneddoto formidabile di Carlo Vitagliano che ha scritto un libro davvero molto bello (“Noi, i ragazzi del Biscione”) che è una specie di  memoir dei suoi trent’anni e oltre passati a Canale5. Berlusconi si ritrova nei suoi stock di film la trilogia di Pasolini, “Decameron”, “I Racconti di Canterbury” e “Il Fiore delle Mille e una notte”.  Vitagliano all’epoca aveva il compito di fare i “promo”, e per i promo c’erano le musiche preconfezionate da Augusto Martelli, sigle, siglette e stacchettini tipo “Il pranzo è servito”. Vitagliano, di formazione cinefila e intellettuale, non se la sente di usare Martelli per lanciare Pasolini. Allora fa di testa sua e infila la “Messa in SI minore” di Bach e arie di Mozart. Quando Berlusconi lo viene a sapere si arrabbia. Fin qui, nulla di strano. La cosa meravigliosa però è che Berlusconi convoca Vitagliano per fargli il cazziatone, e per tutto il tempo dice “Spadolini”, e “questi film di Spadolini” e “insomma perché non usiamo le musiche di Martelli per lanciare i film di Spadolini”. Vitagliano racconta che in quel momento, mentre fissava Berlusconi, era davvero impossibile capire se lo stesse prendendo per il culo o se fosse un lapsus.

 

MM: Io so i nomi. E anche i cognomi. però qui sarebbe ora adesso di un passaggio colto su medium e messaggio. E’ interessante come alcune cose nascono sulla Rai ma lì non decollano, è come se il contenitore è troppo diverso per natura dal suo contenuto, come se il terreno di coltura non permette l’attecchimento. Così Dallas viene trasmesso per la prima volta su Rai 1, ma non funziona. Passa dunque a Canale 5 dove gradatamente diventa fenomeno epocale. Canale 5 nel suo epos hollywoodiano-trash ha infatti finalmente il linguaggio giusto per accogliere quest’epopea: nascono riti di questo nuovo culto. Ecco i Telegatti, cerimonia autocelebrativa che nasceva in contrapposizione al micidiale  “Premio Tv - Premio regia televisiva” di Rai 1. Era un premio “internazionale”, e non era solo un premio ma un “gran galà”, termine che evocava un evento esclusivo, tra l’Academy Award e una serata al Rotary di Agrate Brianza. “Do a tutti voi il benvenuto per questo gran galà della televisione. Allegria”, scandisce Mike Bongiorno in smoking sul riff di “Sorrisi is magic”: (testo abbastanza incomprensibile: “Sorrisi is magic. Sorrisi Forever. Sorrisi will love you. Tonight will love You Tonight will losing with you. Music lights”, del duo dance dei fratelli La Bionda. Anche qui, l’America. Sembra anche una di quelle feste degli italiani all’estero, il santo patrono a New York. Divi americani premiano italiani e viceversa,  il bambino di “Nuovo cinema paradiso” premia Sylvester Stallone; Corrado premia Elton John, De Niro Renzo Arbore, Nancy Brilli Michael Douglas.

 
AM: Ma c’è anche la politica (nel 1988 Giulio Andreotti allora ministro del Tesoro premia Sophia Loren per lo “sceneggiato straniero” Mamma Lucia); il giornalismo (nel 1987 Enzo Biagi riceve la statuetta per il suo programma “il caso” da Indro Montanelli).

 
MM: Certo, è un premio ecumenico, si estende a tutte le categorie dell’attività umana, sia dei canali Mediaset (che non si chiama ancora così) che della Rai. Lo sport e la politica. E’ però davvero internazionale, e porta l’Italia e nello specifico Milano a una centralità di norma realizzata solo con le settimane del design e del mobile. Che rimangono però fenomeni di nicchia, destinati a élite e addetti ai lavori, mentre il Telegatto è glamour per le masse che non possono accedere a quegli eventi per cui serve l’invito: smoking e allegria, polvere di stelle brianzola, oltretutto più spumeggiante e meno ingessato del David di Donatello che poi lo sostituirà come unico grande evento televisivo, però appunto molto romano, dunque istituzionale, quirinalizio.  

 
AM: I nostri Oscar sono sempre stati, e saranno sempre, i Telegatti.

 
MM: L’Italia del Telegatto è l’ultima Italia che funziona, probabilmente, o comunque tira avanti prima dello sfascio di Tangentopoli, e il suo simbolo è proprio Andreotti, che – forse è solo una coincidenza – ha una specie di rapporto privilegiato col Telegatto oltre che col mondo televisivo che gli gira attorno. Andreotti vince per ben tre anni nella categoria “miglior politico” (87,89, 90) e tutte e tre le volte compare sulla copertina di Sorrisi: la più famosa è quella dell’87 con lui al centro nella foto e intorno Corrado, Gassman (con una faccia molto depressa), Zucchero, Vialli, Enzo Biagi, e Beppe Grillo. Il figlio Stefano Andreotti, pur assai schivo, immortala queste copertine sulla sua bacheca Facebook. 

 
 L’idea del gatto fu dei grafici di “Sorrisi e canzoni”, il nostro “Variety”, che individuarono nel felino (quarant’anni prima dei gattini di internet) l’animale domestico per eccellenza. Gatto e Biscione. C’è tutta un’iconografia zoologica di Canale 5 che andrebbe studiata a parte.

  

L’Italia del Telegatto è l’ultima Italia che funziona, probabilmente, o comunque tira avanti prima dello sfascio di Tangentopoli


MM: La statuetta del telegatto, alta 15 centimetri (più sette di piedistallo) e del peso di 1,8 chilogrammi, era fatta di  bronzo, placcato oro zecchino. C’era poi un modello in platino che veniva assegnato solamente in occasioni eccezionali e come riconoscimento a carriere eccellenti (l’hanno preso Mike Bongiorno alla carriera, Stefania Sandrelli, Fiorello, eccetera).  “Nel suo piccolo, o meglio, nel suo grande, il Telegatto è una cosa veramente importante. Se vuoi raccontare la storia di questo Paese, seria, la racconti attraverso queste cose che sono apparentemente futili, ma a ben vedere non lo sono”. L’ha detto Pippo Baudo alla presentazione del libro “Il Telegatto - Storia del premio più amato dalle star”, curato da Rosanna Mani. 
  
AM: Ma a proposito delle due Italie, quella parastatale dei David, e quella americana dei Telegatti, l’altra grande opposizione da studiare e tra TeleMilano e TeleRoma56.


MM: Un altro pezzo di storia che andrebbe riletto. La contemporanea nascita, a Roma, di un altro bastione di modernità, “TeleRoma56”, la prima emittente privata romana, fondata un anno prima, nel ’77, nella sua villa-compound a via Nomentana da un personaggio che più diverso da Berlusconi non si poteva immaginare (eppure si sarebbero piaciuti): Bruno Zevi, archistar, harvardiano, ebreo, grande gatsby dei radicali. Zevi fonda la tv  insieme allo psichiatra Guglielmo Arcieri che si prefiggeva di diffondere la tv per “sconfiggere la nevrosi”, e a Elsa De Giorgi, musa di Calvino. I primi programmi vanno in onda dalla biblioteca, tipo messaggio alla nazione qualche anno più tardi del Cav. Tra i “clou” di quella avventura televisiva, una Emma Bonino che sviene in diretta durante uno dei tanti scioperi della fame, e il gruppo degli Indiani Metropolitani imbavagliati. La biblioteca non è quella laccata bianca di Berlusconi, bensì quella che ha visto qualche anno prima un party trionfale per la visita di Frank Lloyd Wright. Anche in TeleRoma56 o quantomeno nel suo fondatore c’è molta America: Zevi dopo le leggi razziali era partito per New York  sul piroscafo Conte di Savoia con un biglietto di sola andata.   


AM: Sono due Americhe, sono come Dallas e Dynasty, programmi entrambi importati da Canale 5. Bistrattati ovviamente dalla critica, e adorati dal pubblico.


MM: Dallas con le fortune sgangherate della famiglia Ewing (in italiano, “Gei Ar”, per un pubblico non ancora pronto con le lingue, l’Erasmus arriverà solo nel 1987). Dynasty, molto più europeo, protagonista perfida la britannica Joan Collins, omosessualità, sempre pozzi di petrolio ma più riflessivi, protagonista Blake Carrington petroliere chic, si disse, creato a imitazione di Gianni Agnelli.


AM: Dallas era nato in America nel ’78, e siamo di nuovo sul crinale tra gli anni Settanta “formidabili” e gli 80 deprecabili. Però è un anno ben più significativo per l’Italia. 


MM: E’ l’anno del rapimento Moro e insieme della fondazione di Telemilano: l’evento più drammatico che sembra chiudere gli anni di piombo e pochi mesi dopo la nascita della grande tv commerciale che apre al decennio del privato, del riflusso, del cazzeggio. Paolo Morando su Link qualche tempo fa ha fatto coincidere l’inizio degli Ottanta proprio con un avvenimento del 1978, quando lo spazio una volta occupato dagli Scritti corsari di Pasolini viene appaltato alla “posta del cuore”. Il 13 settembre ’78, un lettore cinquantenne pone la sua disperata questione sulla prima pagina del primo giornale italiano: non sa decidere tra la moglie e l’amante.  


AM; Scompiglio nel paese, che non sa ancora di essere appena finito nel mezzo secolo del cuore aperto, televisivo e non. 


MM: E adesso, 40 anni dopo, è chiaro che serve un gesto di riconciliazione. La  buttiamo lì: e se il Cav. si comprasse la defunta “Micromega”, per rilanciarla? Finale natalizio, hollywoodiano, un po’ Frank Capra, e anche molto “Mank” (anche se Milano2 alla fine era più ordinata e meno visionaria di San Simeon).

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