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Chiara Ferragni e la costruzione narrativa dell’identità

Simonetta Sciandivasci

L'influencer non è un fenomeno straordinario, ma lo Spirito del tempo. Ed è anche per questo che la Rai non ha saputo raccontarla. Un libro che cambia la prospettiva 

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Parliamo di come non sappiamo parlare di Chiara Ferragni. La prima intervista della serie di Letterman su Netflix si apre con Kim Kardashian, 191 milioni di follower su Instagram, famosa per essere famosa, sposata a Kanye West, rapper, che qualche mese fa s’era messo in testa di candidarsi alla Casa Bianca, dopo settimane di sbrachi e insulti e fesserie e dichiarazioni d’amore per Trump e Dio, finché lei non era intervenuta per dire a tutti: mio marito è bipolare, state buoni, ora vi spiego l’inferno che vivo. Lei si siede e Letterman le chiede come sta, lei dice bene, lui le chiede se quella lunga treccia che porta sia opera sua, lei risponde che qualcuno gliel’ha regalata in cambio di un post su Instagram, lui le chiede quanto ci abbia guadagnato, lei risponde che non parla di soldi, lui le dice che anni fa ha deriso il suo show in pubblico perché era impreparato (“Keeping with the Kardashian”, il reality show sulla famiglia Kardashian che a settembre KK ha chiuso per sempre – in Italia qualcuno l’ha letto come un inequivocabile segnale di tramonto di lei, degli influencer, di una generazione intera). Il resto è uno spasso, una conversazione tra persone che fanno spettacolo semplicemente parlando.

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Parliamo di come non sappiamo parlare di Chiara Ferragni. La prima intervista della serie di Letterman su Netflix si apre con Kim Kardashian, 191 milioni di follower su Instagram, famosa per essere famosa, sposata a Kanye West, rapper, che qualche mese fa s’era messo in testa di candidarsi alla Casa Bianca, dopo settimane di sbrachi e insulti e fesserie e dichiarazioni d’amore per Trump e Dio, finché lei non era intervenuta per dire a tutti: mio marito è bipolare, state buoni, ora vi spiego l’inferno che vivo. Lei si siede e Letterman le chiede come sta, lei dice bene, lui le chiede se quella lunga treccia che porta sia opera sua, lei risponde che qualcuno gliel’ha regalata in cambio di un post su Instagram, lui le chiede quanto ci abbia guadagnato, lei risponde che non parla di soldi, lui le dice che anni fa ha deriso il suo show in pubblico perché era impreparato (“Keeping with the Kardashian”, il reality show sulla famiglia Kardashian che a settembre KK ha chiuso per sempre – in Italia qualcuno l’ha letto come un inequivocabile segnale di tramonto di lei, degli influencer, di una generazione intera). Il resto è uno spasso, una conversazione tra persone che fanno spettacolo semplicemente parlando.

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Alcune settimane fa, la Rai ha trasmesso il documentario su Chiara Ferragni, 1 milione e 600 mila euro di incassi al botteghino, seguito da un’intervista di Simona Ventura a CF, preceduta da un bignami di SV sulla sua ospite: diceva quanti anni ha, quanto guadagna, che “è italiana ma soprattutto donna”. Lo share è stato bassissimo, i sagaci hanno commentato che era la prova definitiva che il pubblico della Rai è fatto di vecchi (erano più meno gli stessi sagaci secondo i quali KK è sulla via del tramonto). La Rai ha voluto raccontare Chiara Ferragni, in un modo che fosse simile al suo, ottenendo un effetto kitsch, che è sempre l’esito – ce lo ha insegnato Tommaso La Branca – di un’imitazione malfatta. Ma Ferragni è inimitabile perché lei è il linguaggio che usa. Questo è uno dei punti che illumina Lucrezia Ercoli, filosofa, nel suo saggio “Chiara Ferragni, filosofia di un’influencer” (Il Melangolo), che analizza la storia di CF dal blog di una ragazzina bionda di Cremona al brand Ferragnez che ora è azienda, royal family, pronto soccorso, serie tv.

 

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La Rai si è affannata a contestualizzare la storia di Ferragni come se fosse la storia atipica di una giovane favolosa, come fosse un evento straordinario, un concerto rock prolungato. Invece, la storia di CF è la storia di una ragazza che usa i mezzi del suo tempo, non fa alcuna distinzione tra la sua vita privata e la sua vita pubblica, tra lavoro e casa, tra condivisione e partecipazione, tra complessità e difficoltà: una che fa quello che facciamo tutti, ma meglio. Lei è l’atto di ogni nuova potenza che il nostro tempo ha prodotto: osservarla significa osservare cosa abbiamo a nostra disposizione. Noi continuiamo a guardarla come un’aliena, un artificio, un film: le sediamo davanti come fa Simona Ventura, convinti di doverla spiegare, di dover dare un senso al cambiamento di rotta che crediamo incarni. Invece, lei fa la cosa più antica e umana di tutte: si racconta. “La costruzione narrativa dell’identità”.

 

Il nostro è il tempo dell’autonarrazione, certo, ma l’uomo non esiste che dentro una cornice narrativa. Scrive Ercoli: “Condividere la propria vita sui social ha a che fare con quella che Paul Ricoeur chiamava la costruzione narrativa dell’identità. In questa prospettiva, il nostro io non è mai statico e assoluto, ma si struttura sempre all’interno di una cornice narrativa: siamo attori che mettono in scena la storia della propria vita”. Il racconto di Ferragni estromette il conflitto, non vede che il bello e il buono, non sceglie che la parte migliore: lo facciamo tutti, da prima che lei arrivasse nelle nostre vite e ce lo sbattesse davanti agli occhi.

 

Ercoli, che insegna Storia dello spettacolo e Filosofia del Teatro all’università di Reggio Calabria e dirige il Festival Popsofia, dice al Foglio: “L’invidiabile nonchalance con cui l’ho vista profanare il tempio del cinema a Venezia con il suo documentario, mi ha convinta che fosse un soggetto perfetto per uno studio filosofico. La filosofia deve approfittare di queste profanazioni, deve lasciarsi provocare e profanare a sua volta. Ho letto mille ‘sociologie della Ferragni’, tutte attente a mantenersi a distanza di sicurezza dal fenomeno. La mia bibbia, invece, è ‘Mythologies’ di Roland Barthes, che legge i segni del presente connettendoli alla radice ultima dell’umano, senza la presunzione di darne un giudizio”. L’altra bibbia è il saggio di Simone De Beauvoir su Brigitte Bardot: rileggiamolo, con Ercoli.

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