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Il quieto nulla dei Me contro Te

Simonetta Sciandivasci

Gli youtuber babysitter odiati dai genitori faranno un secondo film. Indagine su un fenomeno

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Mentre certi attempati parlano a tutela dei giovani, facendone le veci come usa nel paese dove prosperano numerosi “giovani anche cinquantenni” (Aspesi), i Me Contro Te girano un film. Il loro film. Il secondo. Si chiamerà “Il mistero della scuola incantata”. L’altro, “La vendetta del Signor S”, aveva incassato 5,6 milioni di euro al botteghino nei primi tre giorni di programmazione, a gennaio scorso.

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Mentre certi attempati parlano a tutela dei giovani, facendone le veci come usa nel paese dove prosperano numerosi “giovani anche cinquantenni” (Aspesi), i Me Contro Te girano un film. Il loro film. Il secondo. Si chiamerà “Il mistero della scuola incantata”. L’altro, “La vendetta del Signor S”, aveva incassato 5,6 milioni di euro al botteghino nei primi tre giorni di programmazione, a gennaio scorso.

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I Me Contro Te sono due YouTuber, gli utenti registrati al loro canale sono 5,45 milioni, più della metà dei bambini italiani. Sono stati tra i primi a capire che YouTube non è soltanto la televisione degli adolescenti, ma pure dei fratelli più piccoli, ed è a loro che si rivolgono, è per loro che scrivono libri, anzi Fantalibri, cantano canzoni, vendono felpe, scatole, portachiavi, cappellini, zainetti, slime, diari, spille, mascherine. Artisti completi. Non mancano di un gadget.

Se non siete genitori o nonni o minorenni (che cosa campate a fare?) assai probabilmente non li conoscete, ché in Italia più di nicchia di ciò che interessa ai ragazzini non c’è niente, neanche le rassegne pomeridiane di alcune cineteche prossime alla bancarotta.

         


Guardate due episodi dei Me Contro Te e capirete come mai nessun adolescente oggi stia reclamando libertà di ballo sfrenato


      

I vecchiarelli che questa settimana s’affannano a dire che impedire il ballo nelle discoteche è un attacco alla libertà, un insulto alla giovinezza, una grave deprivazione culturale, dei Me Contro Te nulla sanno, non se ne curano, non ne sono incuriositi, non li memorizzano, non li capiscono, forse non li vedono neppure, anche se ogni tanto capeggiano le classifiche dei libri più venduti, e le loro facce ornano gli zaini dei bambini, e pure le paginate dei quotidiani. Li ritengono irrilevanti, insignificanti, lontani, meteore. Strologano il futuro dei giovani senza conoscerne il presente, senza conoscerne niente: credono che si sia giovani sempre nello stesso modo, e non è vero. Difendono le discoteche perché in discoteca sono stati giovani loro.

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Se guardassero due episodi qualsiasi dei Me Contro Te capirebbero come mai nessun adolescente o ventenne sia insieme a loro a reclamare libertà di ballo sfrenato; capirebbero come mai nel film dell’estate italiana, “Sotto il sole di Riccione” di Enrico Vanzina (su Netflix), il “Sapore di Mare” della Gen Z, nessuno fa sesso, nessuno si ferisce davvero, nessuno piange o si dispera davvero, a parte la madre di un ragazzino cieco (e nonostante questo, nonostante a nessuno sembra che batta davvero il cuore, come accadeva ai ragazzi dei tempi di Virna Lisi, è un bel film, è proprio un bel film, evviva Vanzina, massimo esperto di giovani, forse perché ha quella faccia un po’ così, di uno che giovane non lo è stato mai); capirebbero che la giovinezza non cambia, è sempre quell’età in cui si crede di poter fare tutto perché tutto viene perdonato, ma cambiano i giovani e il loro senso del perdono, del limite, del tempo, della partecipazione.

   

Di Me Contro Te sono grandi esperti i genitori di cinquenni, seienni, settenni, ottenni, novenni, insieme ai quali guardano le avventure di questi fidanzatini, Luì e Sofì, che danno al pubblico delle Trote, del tutto inconsapevoli del rimando al figlio di Umberto Bossi, il Trota, che in anni meno avvertiti di questi è stato il simbolo della gioventù raccomandata, e quindi dare del Trota a qualcuno significava dirgli che dormiva il sonno del fesso pure da sveglio. E non possono fiatare, non possono dire “ma cos’è sto schifo”, perché i bambini d’oggi sono parecchio irritabili, figli perfetti dell’èra dell’identitario, e dir loro che guardano scemenze può costare a un padre un ricorso al Tar. Essendo poi i genitori d’oggi dei millennial che per tutta l’infanzia si sono sentiti dare degli invertebrati perché guardavano Holly e Benji, mentre i grandicelli della Gen Z avevano avuto i Superboys, figurarsi se mettono bocca sulle scelte d’intrattenimento dei loro figli. E però vorrebbero. Uh, se vorrebbero. E avrebbero ragione, uh se avrebbero ragione. Lo diciamo per loro, lasciatecelo dire in quanto non genitori: i Me Contro Te sono nuddu miscatu cu nient. Del niente, così come del nulla, è sempre affascinante parlare. In questo caso, forse, è persino doveroso. Del niente parlano benissimo anche loro. Se si può dire che il loro sia parlare. Forse, è più un mugugnare, un simulare, un gironzolare.

       


Ma forse piacciono anche agli adulti: sono gli unici ad ammaliare i bambini in modo sano e innocente, senza imporre loro alcuno sforzo


     

Dobbiamo guardare al fondo di questo abisso, dal momento che non possiamo cambiare canale come consiglia Melodie a Boris Yellnikoff in “Basta che funzioni”: su YouTube non c’è mica il telecomando. Si va a flusso continuo, e ci si deve augurare che l’algoritmo sia clemente, e non provveda a radicalizzarci, come era venuto fuori l’anno scorso, quando il New York Times lanciò l’allarme e spiegò che YouTube rimandava a video sempre più violenti, anche se si partiva da un video innocente, magari da una canzone degli U2, in pochi passaggi, se non si interveniva e lo si lasciava andare a ruota libera, finiva col portare l’utente verso contenuti razzisti, omofobi, fascisti, talvolta persino pedofili.

   

Sul canale dei Me Contro Te non c’è questo pericolo, tutto rimanda a loro, sempre, sia la piattaforma che le riprese, la casa, gli oggetti, le loro indicazioni, le loro raccomandazioni. Ogni video finisce con un invito a riguardare o guardare quello del giorno prima, “nella speranza di avervi fatti sorridere anche oggi”.

    

Che succede in questi video? Niente di più di quello che c’è scritto nella bio di questi due ragazzi, sul loro sito che non è nient’altro che uno shop online: “Ciao a tutti, Lui è Luì e lei è Sofì, la coppia più pazza del web! Siamo dei vlogger, riprendiamo ogni giorno la nostra vita e la condividiamo con milioni di persone!”.

     

Non un’indicazione anagrafica, geografica, antropologica, estetica: niente di niente. Loro sono video viventi. S’esauriscono nel vlogging, orgogliosamente senza contenuti, anche se il Moige li ha premiati per “l’alto valore educativo”, e nessuno ha fatto ricorso al Tar. Nessuno. Non un genitore s’è ribellato, non un insegnante, un preside, una ragazza madre, una nonna, una zia, una babysitter. Nessuno contesta Luì e Sofì, anche perché non sbagliano una mossa. Non fanno niente. Non dicono niente. Sono la prosecuzione diretta dei Teletubbies, i pupazzi che camminano a mugugnano per chilometri, certe volte saltano, altre volte inciampano, indossano enormi tute e sembra che vengano da un pianeta svedese, dove tutto è Ikea e comodità, ottimizzazione, risparmio, anonimato, ordine e bruttezza. Luì e Sofì vengono da un piccolo paesino vicino Palermo, anche se non ne parlano mai, e vivono a Milano, in un appartamento spoglio e colorato di rosa, giallo, arancione, praticamente solo dei colori delle caramelle, non ci sono quadri alle pareti, né mensole, né libri (a parte quelli dei Me Contro Te), né giornali. Non ci sono che simboli, pupazzi, soprammobili che rimandano a loro: il salotto è una classe d’asilo d’estate, quando i bimbi sono per strada o al mare, e non ci sono disegni alle pareti, e i giocattoli sono tutti sotto chiave chissà dove, in attesa di settembre. E’ tutto spoglio e bambinesco, immacolato, intoccato, vergine: persino la cucina, persino i panini. Sul loro amore di plastica, Luì e Sofì fatturano, strafatturano, e anche della loro ricchezza non c’è traccia da nessuna parte, né sulle pareti, né sulle mensole, né nelle cabine armadio, né nei vestiti che hanno addosso.

    


Nei loro video non fanno niente, non dicono niente. Eppure il Moige li ha premiati “per l’alto valore educativo”


      

Lui ha la faccia scema di Jim Carrey in “The Mask” e in “Scemo più Scemo”: quando parla non è mai a riposo, urla e mima tutte le parole di tutte le frasi che pronuncia, è un canzonatore di se stesso, del tutto sottomesso alla sua sodale, che non tocca né bacia né corteggia né seduce né ama. Lei, Sofì, è più moderata, lei è la furba, la saggia, l’assennata, è quella che vince tutte le sfide, che sa vendicarsi di tutti gli scherzi, costantemente in rimonta, più screziata di lui, più attrice, meno monotematica. Conduce, è chiaro. Conduce perché è una femmina, naturalmente. Nei confronti di Luì non ha mai alcun impeto, moto affettuoso, desiderio: la scalda solo la challenge, la sfida. La vita di questi due tali, i vicini che nessuno di noi vorrebbe mai non perché sono molesti ma perché sono scemi e puritani come Ned Flanders, l’oltranzista cristiano che nei Simpson di tutti i nomi delle cose fa un diminutivo, scorre nel niente, in un appartamento disadorno e squallido, che potrebbe essere ovunque, dove non entra mai nessuno, non arriva mai nulla da fuori, come se fuori ci fosse un mondo disabitato, fuggito da loro, dalla loro melassa, dal loro mugugno. In una delle ultime puntate, Sofì porta Luì a conoscere la sua famiglia perché “mio padre ha saputo che sono fidanzata e vuole assicurarsi che tu sia ok, e io penso che tu sia ok, anche se sei pazzo”. L’incontro non avviene davvero: al posto delle persone, ci sono i pupazzi, le Barbie e i Ken, che si muovono dentro una casa di Barbie molto spaziosa e confortevole, attrezzatissima e calda, molto più calda del loculo da “Ragazzo di Campagna” a Milano in cui vivono i Me Contro Te. E’ ancora una volta Sofì a guidare la scena, regista e imperatrice assoluta. Presenta il suo Luì a suo padre, un Ken biondo che non ha l’accento siciliano ed è vestito da Marco Polo, si chiama Cristophe ed è doppiato da una voce suadente, giovane, da persona di mondo e d’altro lignaggio. La mamma, una Barbie vestita da damina ottocentesca, serve il tè con grande devozione, persino canticchiando, con un buon umore affettato ma non fasullo: tutto l’episodio sembra un omaggio al Donna Reed Show. E invece sono i Me Contro Te che ufficializzano un fidanzamento. Il suocero rivolge a Luì solo una domanda, gli chiede se è stato a Londra, e Luì dice di no, ma spera di farlo presto. Pochi minuti dopo, al momento del congedo, il suocero dice a Luì: sei un ragazzo in gamba!

  

  

Meno male che il Moige non è femminista e che le femminista sono impegnate a crocifiggere le Principesse Disney, altrimenti Sofì sarebbe finita peggio di EllenDeGeneres, la Woody Allen della recrudescenza della cancel culture sotto Covid. Un ragazzo che non è mai stato a Londra, indossa una camicia verde fosforescente, parla come un cretino, è in gamba? È una sceneggiatura che non ci si può permettere, suvvia, specie nel paese dove per diventare adulti ci vuole la Cassazione. “Un figlio ha il dovere di rendersi autonomo dai propri genitori e cercarsi un’occupazione in grado di mantenerlo”, ha scritto il Corriere domenica scorsa, commentando la sentenza 17183 che ha stabilito che, finiti gli studi, un ragazzo deve lavorare, punto e basta. Nel 2017 discutemmo con grande ardore di un’altra sentenza della Cassazione (la nostra Posta del Cuore, la nostra insegnante di Yoga, la nostra Sacerdotessa Wicca, la nostra Bibbia) che accolse il ricorso di un padre contro la figlia, un’imberbe trentacinquenne che succhiava il mantenimento che lui versava all’ex moglie: da questo momento in poi, dicemmo, i genitori non saranno tenuti a mantenere figli finché non si renderanno indipendenti. Credevamo, ingenui ottimisti faciloni che siamo sempre stati, che ci saremmo così liberati del parassitismo filiale, grande piaga nazionale propedeutica a quella, sempre domestica, del familismo amorale, che ha ormai da tempo smesso di connotare solo il sud e ha contaminato tutto il paese. Luì e Sofì sono la magnificazione della vita parassitaria, reclusa, impermeabile, asessuata, defiscalizzata, desalata, disossata, denutrita, decolorata. Potremo pretendere che dei bambini cresciuti davanti a uno spettacolo vuoto e insipido si rendano indipendenti? Che escano di casa? Che abbiano dei sogni diversi dal piazzare un adesivo col proprio nome e la propria faccia su tutti gli oggetti della casa, e su tutto quello che hanno addosso?

   


Lui ha la faccia scema di Jim Carrey, lei è più furba, un passo avanti. Vivono in una casa vuota dove non entra mai nessuno


   

E’ moralista domandarselo? Eppure i Me Contro te sono i baby sitter dei bambini, lo sono stati durante il lockdown molto più di Disney Plus, e lo erano anche prima, e continueranno a esserlo. Come mai radiografiamo tutto quello che finisce davanti agli occhi degli adulti che verranno, tranne che questo orripilante show malfatto, mal recitato, mal scritto, mal ambientato? Non sarà che i Me Contro Te piacciono anche a noi, perché sono gli unici ad ammaliare i nostri bambini, e lo fanno in un modo sano e innocente, e cioè senza imporre loro alcuno sforzo, alcuna competizione, alcuna gara di cervelli: dicono, i Me Contro te, che da bambini si può anche essere scemi, stupidi, colorati, vuoti, incompetenti, insensati, esagerati, mammoni, piagnoni, casalinghi, isolati. Dicono che ci si può divertire in casa, facendosi degli scherzi cretini, e senza costruire bombe all’idrogeno con i profumi della mamma, come ci insegnava a fare Art Attack. Dicono che si può crescere senza andare al corso di equitazione, disegno, inglese commerciale, basket, padel, epigrafia greca. Dicono che per essere felici basta avere un compagno o una compagna da sfottere, e sfidare a chi resiste di più senza mai guardare il tablet. Dicono che è ancora bello tirarsi i capelli.

   

Che relax. Ci hanno fregati, però non convinti. Siamo adulti, per la miseria, anziché farci conquistare, chiediamoci come mai è così facile arrendersi. Trote che non siamo altro.

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