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Sergio Zavoli era il giornalismo delle parole

Marco Pastonesi

E' morto oggi l'ex presidente della Rai dal 1980 al 1986, da sempre giornalista folgorato da idee e intuizioni. Gli inizi con il calcio, l'invenzione del Processo alla tappa, e poi la televisione continuamente reinventata con pulizia, dignità e profondità

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Era il giornalismo. E molto di più. E ancora di più. Era il giornalismo da garzone e da presidente della Rai, era il giornalismo da intervistatore e da documentarista, era il giornalismo da direttore del TG1 e del “Mattino” e da presidente della commissione vigilanza della Rai, era il giornalismo anche da poeta o da senatore, da saggista e da romanziere, da assistente alla regia per Michelangelo Antonioni e da amico di Federico Fellini. Sergio Zavoli era il giornalismo. Aveva quasi 97 anni. E’ morto stamattina nella sua casa a Trevignano, sul Lago di Bracciano.

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Era il giornalismo. E molto di più. E ancora di più. Era il giornalismo da garzone e da presidente della Rai, era il giornalismo da intervistatore e da documentarista, era il giornalismo da direttore del TG1 e del “Mattino” e da presidente della commissione vigilanza della Rai, era il giornalismo anche da poeta o da senatore, da saggista e da romanziere, da assistente alla regia per Michelangelo Antonioni e da amico di Federico Fellini. Sergio Zavoli era il giornalismo. Aveva quasi 97 anni. E’ morto stamattina nella sua casa a Trevignano, sul Lago di Bracciano.

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Aveva il dono della parola, Zavoli. Sapeva declinarla e coniugarla, addolcirla e inasprirla, accompagnarla e cantarla. Trovava la parola giusta al momento giusto e nel posto giusto. Era il giornalismo delle parole, il suo, ma seppe abbinarle alle immagini, ai suoni, ai personaggi, alle strade, soprattutto ai sentimenti e ai sogni.

 

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Nato a Ravenna il 21 settembre 1923, cresciuto a Rimini (“La provincia come piccola patria delle cose che hanno la natura per durare”), dopo la maturità (classica) e l’università (Giurisprudenza), ecco il giornalismo. L’inizio era già ricerca, sperimentazione, avanguardia: raccontava la partita di calcio del Rimini al telefono, collegato con gli altoparlanti in giro per la città. Dopo la guerra, nel 1947 l’assunzione alla Rai: 15 anni di radio (“La sorellina cieca”), poi la tv (“Alle moviole, con il compito di governare il lavoro altrui”). Vi si dedicò giorno e notte, finché chiese di essere trasformato in inviato (“Ci riuscii. Cominciai a girare il mondo e a viaggiare intorno agli uomini”). Mai più smesso. Neanche quando le forze, solo recentemente, hanno cominciato a scarseggiare.

  

Le sue opere, tra carta e pellicola sono pietre miliari: da “Viaggio intorno all’uomo” (1969) a “In nome del figlio” (1972), da “Socialista di Dio” (1981) a “La notte della Repubblica” (1992), da “C’era una volta la prima Repubblica” (1999) fino a “Il ragazzo che io fui” (2011), la sua vita, le sue storie, una copertina che diceva già tanto se non tutto, due ragazzini al mare, uno che si tuffa, l’altro che si è già tuffato ed è risalito sul molo e si è seduto. E sempre, come marchio di fabbrica, come diritto d’autore: pulizia, dignità, profondità. Stimmate – appunto – del giornalismo. Con un’eleganza irraggiungibile. Tant’è che era universalmente ammirato, rispettato, onorato. Un’eccezione. Ad Antonio Gnoli, per “Repubblica”, confidò: “Oggi la velocità è il demone che ci guida. Eppure, non c’è cosa che stia cambiando così lentamente come la distrazione, la dimenticanza, l’egoismo. La sola cosa veloce che vedo è la corsa verso la fine del buon senso e della tenerezza”.

  

Zavoli era illuminato da principi e regole: “La tv ha un dovere etico: la memoria. Tramandare, di generazione in generazione, la storia. Il giorno in cui perdessimo la memoria, non sapremmo neanche più chi siamo, che cosa facciamo, perché viviamo”. Zavoli era folgorato da idee e intuizioni: nel 1962 inventò il “Processo alla tappa” dopo il Giro d’Italia, e nulla sarebbe più stato come prima, perché quella trasmissione fu il bello della diretta, del realismo, della strada.

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Sergio Zavoli intervista Franco Balmamion al Processo alla Tappa. Tra loro c'è Gino Bartali (foto LaPresse)


 

“Italo Zilioli: la sua educazione. Vittorio Adorni: la sua disinvoltura, Felice Gimondi: il suo scandalo, quando si lasciò sfuggire ‘è scoppiato un gran casino’ – a quel tempo la parola ‘casino’ era impronunciabile - e fui costretto a parare il colpo spiegando ‘avete ascoltato questa parola, e l’ha pronunciata uno dei nostri corridori più seri, è la prova di quello che scatena l’acido lattico, a sua volta prodotto dall’immane fatica di una corsa ciclistica, la perdita della misura’. E Vito Taccone: una delle mie spalle ideali, capace di resuscitare avventure sepolte nella pancia del gruppo e di raccontarle come un antico cantastorie”.

 

Soprattutto, i gregari. Umili, modesti, sconosciuti. Ma veri, autentici, originali. Dino Bruni: “Giro d’Italia del 1964. Uno degli ultimi giorni Zavoli, colpito, impietosito, commosso dal mio ultimo posto in classifica dopo essere caduto e rovinato, mi invitò al ‘Processo alla tappa’. E mi domandò perché andassi avanti in quelle condizioni. Gli risposi: ‘Voglio soffrire così tanto da non rimpiangere più il Giro, il ciclismo, la bicicletta’”.

 

  

Lucillo Lievore: “Giro d’Italia del 1966, tappa di Vittorio Veneto, pronti, via, fuga, i primi 50 chilometri da solo, poi mi raggiunse Pietro Scandelli. Si mise alla mia ruota e in 140 chilometri ebbe il coraggio di non tirare neanche un metro. E pensare che a un certo punto avevamo 38 minuti di vantaggio sul gruppo. Morale: io presi una cotta e lui scappò da solo. Avevo freddo, ma era colpa della fame, lo sapevo, però non riuscivo a mandare giù nulla. Arrivò la moto della Rai, seduto dietro c’era Sergio Zavoli, mi intervistò, io piansi, piansi un po’ per la fame, un po’ per la fatica, la stanchezza, lo sconforto, la solitudine, e un po’ anche per la rabbia. Primo Scandelli, secondo io. E pensare che Zavoli non si era accorto che c’era uno davanti a me. Anni dopo, quando lavoravo con i miei fratelli per la nostra ditta di prodotti chimici e industriali e giravo l’Italia per venderli, un cliente mi domandò se per caso fossi parente di quel Lievore là. Gli risposi che per caso ero proprio io. Si commosse, poi si illuminò, infine mi comprò tutto quello che avevo sul camioncino”.

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