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Il fantasista del trash

Michele Masneri e Andrea Minuz

Come Houellebecq o come Cassano? La vita difficile di Tommaso Labranca, scrittore geniale e dunque isolato

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Si sa, le recensioni in Italia non si possono fare perché ci conosciamo tutti. Ma questa non è una marchetta, piuttosto una seduta di autoanalisi collettiva. Siam qui per parlare dell’ultimo libro di Claudio Giunta, “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (Il Mulino). Scomparso nel 2016, a 54 anni, Labranca è stato scrittore, autore televisivo, intellettuale “irregolare” e “controcorrente” (termini che avrebbe odiato, ci torniamo più avanti), tanto celebrato in morte, quanto ignorato in vita. Qualche titolo? “Andy Warhol era un coatto”, “Estasi del pecoreccio”, “Chaltron Hescon”. E poi una marea di progetti artistici, collaborazioni spesso “marginali”, saggi, articoli, fanzine, programmi, biografie di Renato Zero, Orietta Berti, Taricone, Michael Jackson, una prodigiosa “teoria del Trash”, e la pretesa di trasformare una vita passata a Pantigliate, hinterland milanese, in un osservatorio privilegiato per raccontare ciò che accaduto nel costume, negli stili di vita e nei consumi culturali in Italia, dagli anni Ottanta a oggi. 

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Si sa, le recensioni in Italia non si possono fare perché ci conosciamo tutti. Ma questa non è una marchetta, piuttosto una seduta di autoanalisi collettiva. Siam qui per parlare dell’ultimo libro di Claudio Giunta, “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca” (Il Mulino). Scomparso nel 2016, a 54 anni, Labranca è stato scrittore, autore televisivo, intellettuale “irregolare” e “controcorrente” (termini che avrebbe odiato, ci torniamo più avanti), tanto celebrato in morte, quanto ignorato in vita. Qualche titolo? “Andy Warhol era un coatto”, “Estasi del pecoreccio”, “Chaltron Hescon”. E poi una marea di progetti artistici, collaborazioni spesso “marginali”, saggi, articoli, fanzine, programmi, biografie di Renato Zero, Orietta Berti, Taricone, Michael Jackson, una prodigiosa “teoria del Trash”, e la pretesa di trasformare una vita passata a Pantigliate, hinterland milanese, in un osservatorio privilegiato per raccontare ciò che accaduto nel costume, negli stili di vita e nei consumi culturali in Italia, dagli anni Ottanta a oggi. 

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AM: A parte gli amici stretti e qualche collega, ai funerali di Labranca non c’era molta gente. Un po’ perché era il 29 agosto, un po’ perché i grandi “nomi” lo avevano mollato da anni (era abbastanza intrattabile, si era isolato, tv e giornali non lo chiamavano più). In quota “vip” c’era solo Orietta Berti, conosciuta all’epoca del programma di Fazio-Baglioni, “Anima mia”. “Tommaso era un geniale autore”, dice Orietta, “uno scrittore libero, fuori dagli schemi, un grandissimo intellettuale, un puro”. Quindi ricapitoliamo: hai avuto il tuo momento, poi esci di scena, muori ad agosto, forse (lascia intendere Giunta) per “un’indigestione di anguria” a casa di tua madre, funerali a Rogoredo con Orietta Berti, quindi un loculo al cimitero comunale di Pantigliate. E qui comincia il libro. 

 

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MM: Giunta con questa “vita difficile” è responsabile di aver gettato nel panico la bolla degli intellettuali freelance già stremati dal Covid. Da giorni esco di casa e incontro miei simili allarmati che dicono: “Ma l’hai letto?”. “Sì, bellissimo. La prima parte fulminante. Poi dopo molto cupo”. Io stesso non dormo la notte, un’angoscia mi ha preso e non mi lascia . 

 

AM: Un Houellebecq senza il successo di Houellebecq, si dice. Anche se il riferimento migliore lo trova uno degli intervistati di Giunta: Labranca come Cassano (il calciatore, non il sociologo marchigiano). Ecco anzi una linea Longanesi-Flaiano-Bianciardi-Labranca-Cassano: fantasisti geniali, isolati, spesso incapaci di fare squadra, più bravi degli altri, amanti della propria dissipazione, scontrosi, gran sperperatori di talento, “troppo ossessionati da sé stessi per essere buoni narratori” (dice Giunta di Labranca, vale anche per Longanesi, un po’ meno per Flaiano e Bianciardi, il libro di Cassano non l’ho letto). 


A parte gli amici stretti e qualche collega, ai funerali di Labranca non c’era molta gente. I grandi “nomi” lo avevano mollato da anni


 

MM: Con Labranca che però, non muovendosi mai da Pantigliate, ti lascia addosso molta più angoscia. Quanto narcisismo e quanta vocazione autodistruttiva in questa storia che diventa una specie di radiografia di un grande fallimento, l’intellettuale che non ce la fa, forse addirittura suicida. 

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AM: Noi Labranca non l’abbiamo conosciuto, siamo anche un po’ più giovani e assai meno tormentati, ma lo stesso leggiamo il libro di Giunta con molta ansia da smascheramento, come un “grande album di famiglia”. C’è la paura di assomigliare a qualcuno di quei personaggi reali o ipotetici o “paradigmatici” della parabola-Labranca. Chi sono io? Sono l’intellettuale “controcorrente” ma col posto fisso all’Università? Sono lo scrittore presuntuoso, vanitoso, invidioso del successo degli altri, che inacidisce dopo ogni Strega o Campiello o scalata nelle classifiche del libro dell’amico o del collega? Sono quello che ha perso tutti i treni per “non fare compromessi”? O il famigerato “genio incompreso”, assecondato da una nicchia di adoratori, che a lungo andare non esce più dalla parte? 

 

MM: Dopo aver letto il libro di Giunta mi sento pure in colpa: non l’avevo mai letto Labranca, neanche il famoso “Progetto Elvira”, anche se io e te ne abbiam scritto parecchio, del “Vedovo”. Mi ricordo che mio fratello lasciava in giro per casa “Chaltron Hescon” e “L’estasi del pecoreccio”, ma non mi hanno mai sedotto. Mi sembrava un eccesso di zelo star lì a rovistare in quella materia (il trash della pubblicità, le televendite notturne), avendo letto molto Arbasino e visti tutti i “Fantozzi” e “Amici miei” e conoscendo i concetti di lowbrow e middlebrow. E avendo capito che per parlar di cose “alte” con leggerezza e basse con serietà bastava la sprezzatura di monsignor della Casa (signora mia). 


Non si tratta di aspirare a diventare un intellettuale indipendente, ma di provare a farlo senza genitori alle spalle


 

AM: A Labranca l’hanno rovinato i titoli (dei suoi libri), scrive Giunta. La saggistica highbrow, si sa, funziona meglio coi titoli à la Ginzburg (“Il filo e le tracce”, “Il formaggio e i vermi”, “Il giudice e lo storico”). Con quelli di Labranca non ti prendono sul serio. Io però se “Andy Warhol era un coatto” si fosse chiamato, “Il detersivo e la zuppa. La pop-art e la sociologia dei consumi” non l’avrei mai preso in considerazione (la parola chiave lì era “coatto”, non “tamarro”, come voleva Labranca). Ho letto anche “Progetto Elvira” (ma non te l’ho mai detto). Comunque, la scoperta di una “teoria del trash” (con tanto di algoritmo) fu una folgorazione. Labranca usava questa parola, sempre fraintesa, confusa, modellata con gran fantasia in base al contesto – come “radical chic”, o come “fascismo” nei post di Raimo – con assoluta padronanza del mezzo e precisione chirurgica. Il trash come “emulazione fallita”. “Io sono l’emulazione fallita di Tom Wolfe”, diceva di sé. Oggi è “l’angelo custode di tutti coloro che si occupano di effimero con intelligenza e umorismo”, dice Giunta. C’è dunque un canone Labranca che produce i suoi effetti insperati, come nel libro di Gabriele Ferraresi che sto leggendo in questi giorni, “Mad in Italy. Manuale del trash italiano, 1980-2020” (appena uscito per Il Saggiatore), puro labranchismo applicato alla storia del paese. Sono analisi che alla fin fine battono sempre lo stesso tasto, prendendosi cura di tutti i detriti prodotti dall’impatto tra l’ideologia italiana e la “modernità di massa”. 

 

MM: Forse siamo labranchiani a nostra insaputa. Ma il bello del libro di Giunta per me è soprattutto l’indagine su questa vita difficile, la ricognizione del dolore tra l’hinterland milanese e il lago di Lugano. Brutte case, brutti posti, brutti vestiti: sembra un romanzo di Walter Siti solo che questa è scienza, non fantascienza. Tra gli sconforti e il male di vivere, l’amicizia coi vicini rumeni, e l’oasi di Orietta Berti. “Gli facevo i biscotti”, dice lei nel libro. Lui le scrive una biografia e poi avrebbe dovuto farne una seconda. E qui a me viene in mente quella battuta da “Maledetto il giorno che t’ho incontrato”; quando Verdone critico musicale al lavoro su un libro su Jimi Hendrix viene insolentito dal rivale in amore, il colto e asfittico regista teatrale Attilio de Sorges, che come massima offesa lo chiama “il biografo di Rita Pavone”. Quante volte abbiamo pensato di poterlo diventare, biografi di Rita Pavone-Orietta Berti, quando ti proponevano un libro molto “pop”? 

 

AM: Labranca organizzava queste cene-happening tremende, un po’ fantozziane, molto “trash-chic” a Pantigliate, presso la “Maison Labranca”, eventi dove era sempre più chiaro che “il confine tra la Factory di Warhol e la cameretta dell’adolescente invecchiato, tra l’eccentricità e la sfiga è molto sottile”, scrive Giunta. 


Forse siamo labranchiani a nostra insaputa. Ma il bello del libro di Giunta per me è soprattutto l’indagine su questa vita difficile


 

MM: “Pantigliate” suona poi sinistramente simile a “Cantù Cermenate”, il paese in cui l’Alberto Sordi-Silvio Magnozzi di “Una vita difficile”, film amato da Labranca, avrebbe dovuto ritornare, secondo la suocera, per darsi a una carriera solida di impiegato, rinunciando a ogni velleità intellettuale a Roma. 

 

AM: Labranca invece si auto-esilia, a Pantigliate/Cermenate, senza bisogno di suocera. 

 

MM: Però era anche un grande innamorato di Milano. Potremmo metterci lui al posto di Montanelli. “Giardini Labranca” suonerebbe bene e avrebbe anche un po’ più senso. 

 

AM: O almeno, un busto a Pantigliate. Perché se oggi il Foglio ci manda a Noto per tirare fuori sei pagine di “kulturkritik” sul matrimonio di Fedez & Ferragni è anche merito dell’operazione messa su da Labranca. Il viaggio a Noto a ripensarci era anche un on-the-road in puro Labranca: noi due a vagare per la cittadina assolata, tra ragazzini che inseguivano oscuri youtuber, mamme che spingevano bambine a osservare dal campanile la cerimonia, rischiando che cascassero di sotto. 

 

MM: E al ristorante simil milanese nello sprofondo, tutto metallo industriale che sembrava molto Pantigliate, alla domanda “che c’è di buono oggi”, “pasta di grani antichi senza glutine”, rispondeva il cameriere, ma non si poteva in nessun modo pagare con carte di credito. Un esempio perfetto di trash, cioè imitazione malriuscita di milanesità nella Sicilia profonda. 

 

AM: Che poi – ma questo è un pezzo di autoanalisi, l’abbiamo annunciato all’inizio – anche lì, tutti a dire “ma che idea geniale, andare a Noto al matrimonio della Ferragni”, però nessuno dei giornaloni ci è andato, eppure non ci voleva molto, Ryanair e macchina a noleggio. 

 

MM: Ryanair e Airbnb. E pensare che Labranca invece avrebbe potuto vivere i tempi gloriosi: anche in questo è stato un precursore e un profeta di auto-sventura, perché si è auto-proletarizzato in un momento storico in cui i giornaloni avevano ancora soldi. Ha anticipato la guerra dei poveri di oggi, col passaggio dalla carta al digitale. 


E’ stato un precursore e un profeta di autosventura, si è auto- proletarizzato in un momento in cui i giornali avevano ancora soldi 


AM: Ma qui siamo un po’ al cuore del problema e del libro di Giunta. Perché “Le alternative non esistono” è tante cose insieme. E’ un saggio sulla vita, le opere, le intuizioni, le occasioni sprecate di Labranca. E’ un libro sulla “miserabile società dello spettacolo italiana”, sulla televisione, sull’editoria milanese e romana degli anni Novanta. E’ il resoconto, dettagliato, puntuale, documentato come un’inchiesta, delle vanità e del repertorio di bassezze che puntellano la costruzione di una carriera intellettuale e un “successo” che è quasi sempre simbolico, raramente economico. 

 

MM: E’ anche una storia di scelte sbagliate, di masochismo editoriale: rifiutare il sacro graal dell’intellettuale italiano, cioè lavorare in tv, per poi andare a inventarsi strane riviste d’arte o collaborazioni con “Cronaca Vera”. Come se non fosse già abbastanza difficile. Perché a un certo punto Labranca riesce nell’impresa che tutti sogniamo, essere pagato (bene) per le sue manie, dunque ecco che il suo culto del trash e del design nostalgico viene reso mainstream da “Anima mia”. Dunque finalmente soldi e successo, che svaniscono però immediatamente. 

 

AM: Ecco il paradigma Labranca. Qui non si tratta di aspirare a diventare un intellettuale indipendente, ma, come dice Giunta, di provare a farlo senza genitori alle spalle. Ed è quasi sempre impossibile. Se non ricordo male, Umberto Eco lo chiamava “darwinismo all’italiana”. Se magari si è molto giovani lo si può leggere come un grande disincentivo all’impresa culturale. Con la parabola esemplare di Labranca, Giunta ci ricorda che “intellettuale irregolare” in Italia non vuol dire “controcorrente” o “scomodo” o “libero”, ma “senza stipendio fisso a fine mese”. 

 

MM: Irregolare nei bonifici. Scomodo nell’Iban.

 

AM: Non a caso, qui c’è gente che si definisce “scrittore precario”, lasciando intendere l’attesa per l’upgrade a “scrittore a tempo indeterminato”, con tredicesima, pensione e vitalizio.

 

MM: Senza capire che oggi (al novanta per cento) si è tutti sullo stesso piano: gli ascensori sociali – e siamo al “Vedovo”, sempre – tutti saltati. Una volta uno faceva la gavetta poi se eri bravo ti dicevano che eri bravo e il grande giornale ti prendeva. Oggi invece ti dicono che sei bravo, ma il grande giornale non ti prende più perché nel frattempo deve tagliare 150 giornalisti assunti negli anni Ottanta con contratto trotskista, dunque tu stai lì e ti confronti coi ventenni che giustamente ti odiano e ti considerano un matusa e magari ti diranno “ok boomer”. E guadagnano come te.

 

AM: Non si butti giù, dottò.

 

MM: No, infatti: forse perché viviamo non a Pantigliate ma a Roma, dove nessuno è veramente interessato a che lavoro fai, o forse perché rispetto alla linea Bianciardi qui si è sempre scelta la linea Fantozzi: quando fai dieci riunioni “in” Rai e ti dicono “troppo alto, troppo alto”, poi quando hai abbassato finalmente il livello cambia “er” capostruttura e il progetto perisce; quando fai l’intervista e l’intervistato a cui tu hai leccato il culo perché non ti va di infierire si inalbera per l’asprezza, e vuole sapere “chi c’è dietro”; quando la prestigiosa casa editrice ti convoca e poi dopo ore di discorsi molto costruttivi mette in chiaro che “ma noi naturalmente non diamo anticipi!”; quando De Benedetti ti convoca nel suo ufficio iper-fantozziano sulla Cristoforo Colombo coi ficus e le poltrone di pelle umana e ti dice: “lei deve essere dei nostri!” e poi non ti chiamerà mai più... ti vedi dall’esterno e ti fai una risata. In un paese di azzurri di sci e allievi di Montanelli serve una forte tempra morale, o appunto una visione comica-stoica fantozziana dell’esistenza, sennò si fa presto ad andare in depressione e a diventare odiatore seriale. La Casagit, la cassa dei giornalisti, ha messo su un servizio di “ascolto” e counseling in questi giorni post Covid – però è aperta solo ai giornalisti articolo 1, mentre il freelance che ne avrebbe più bisogno anche al di là del Covid non vi ha accesso.

 

AM: Ma era così già ai tempi di Arbasino, quando descrive la Roma anni Sessanta, col produttore che ti incontra a un funerale. “Proprio te cercavo!”, per proporti lavori urgenti e necessari (ma l’idea di telefonarti non lo sfiora).

 

MM: Ma il business model di Arbasino era la farmacia di famiglia.

 

AM: Chissà: andranno forse riviste anche le fasi dell’intellettuale italiano: forfettino-solito stronzo-statua-statua imbrattata?

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