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L’Europa doma i selvaggi big tech

Cecilia Sala

E’ possibile un patto con gli americani sulle aziende digitali ? L’abbiamo chiesto a due esperti (indizio: mica tanto)

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Nel grande gioco digitale, priva di una Silicon Valley continentale, l’Europa sta studiando una strategia difensiva, al limite del protezionismo. L’artefice di questa “controrivoluzione”, molto più che Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza, si chiama Thierry Breton, di nazionalità francese, professore ad Harvard, manager del pubblico e del privato, nonché raffinato scrittore di fantascienza. E’ stato ministro delle Finanze in patria e ceo di France Telecom, oggi commissario al Mercato interno, gestisce uno dei più grandi portafogli del governo dell’Unione, che va dal digitale all’industria della Difesa. E’ lui a credere nell’ipotesi di una grandeur tecnologica dell’Europa, capace di confrontarsi con i giganti statunitensi.

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Nel grande gioco digitale, priva di una Silicon Valley continentale, l’Europa sta studiando una strategia difensiva, al limite del protezionismo. L’artefice di questa “controrivoluzione”, molto più che Margrethe Vestager, commissaria alla Concorrenza, si chiama Thierry Breton, di nazionalità francese, professore ad Harvard, manager del pubblico e del privato, nonché raffinato scrittore di fantascienza. E’ stato ministro delle Finanze in patria e ceo di France Telecom, oggi commissario al Mercato interno, gestisce uno dei più grandi portafogli del governo dell’Unione, che va dal digitale all’industria della Difesa. E’ lui a credere nell’ipotesi di una grandeur tecnologica dell’Europa, capace di confrontarsi con i giganti statunitensi.

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Già a maggio Breton si era fatto notare oltreoceano per un dialogo virtuale con Mark Zuckerberg, dove, nonostante lo stile diplomatico, non erano mancate le provocazioni. Con un po’ di orgoglio e un filo di presunzione, alle nostre latitudini era passato come il confronto tra “un genio visionario del digitale e Mark Zuckerberg” (Politico Europe). L’atteggiamento di Thierry Breton si iscrive perfettamente nel solco di quello del suo presidente e amico Emmanuel Macron, sempre più intenzionato ad accompagnare l’Europa verso l’ambizione di un’autonomia strategica in vari settori. Da qui la volontà di portare una scossa normativa nell’Unione che preoccupa non poco Google, Amazon e Facebook. Il piano si chiama Digital Services Act ed è molto più ambizioso dei provvedimenti visti fino a oggi, come le regole per la protezione dei dati (gdpr) e quelle per la tutela del diritto d’autore, per esempio la direttiva sul copyright. L’aspetto più rilevante del nuovo piano è l’introduzione di misure asimmetriche, una legislazione su un doppio binario: il primo – con regole rigide – per le aziende più grandi; il secondo – soft – per quelle emergenti.  Il piano si concentra soprattutto su una maggiore responsabilità delle piattaforme social per i contenuti che su di esse vengono pubblicati, e sulla lotta ai prodotti contraffatti. Prevede più controlli e più sanzioni, ma – a parità di comportamenti – solo per le aziende di dimensioni rilevanti, come Google, Amazon e Facebook. Andiamo verso un maggiore protezionismo, dato che le aziende europee che operano nel campo del digitale sono piccole, mentre quelle grandi sono tutte straniere? “Il Consiglio europeo non fa mistero, da ottobre, di considerare un’ipotesi concreta quella di una regolazione differenziata. Non è una novità, è accaduto spesso in passato e in vari settori. C’entra anche il fatto che, storicamente, culturalmente, noi in Europa abbiamo un sistema di imprese più piccole e diffuse. Se qui non ci sono giganti è anche perché le condizioni ambientali sono molto diverse da quelle degli Stati Uniti, e io non credo che il nostro obiettivo debba essere quello di imitare gli Stati Uniti, ma coltivare e far crescere in modo intelligente il nostro modello, che reputo un modello sano”, dice al Foglio Paul Nemitz, il consigliere della Commissione europea che ha guidato la riforma comunitaria sulla protezione dei dati, i negoziati Europa-America sulla privacy, e ha obbligato le piattaforme americane a firmare il Codice europeo contro l’hate speech. Il suo ultimo libro è “L’Imperativo umano: Potere, libertà e democrazia nell’èra dell’Intelligenza artificiale”, pubblicato in tedesco e prossimamente in inglese. “Più in generale mi sento di dire: abbiamo regolato spesso la scienza, abbiamo proibito formule chimiche che portavano alla sperimentazione nucleare, abbiamo regolato le telecomunicazioni. Non si capisce perché non dovremmo fare lo stesso con le Ott, perché dia scandalo, perché le piattaforme debbano essere al di sopra dello stato di diritto. L’Europa ad alcuni sembra vecchia, ma è l’unica grande istituzione le cui leggi sulla regolamentazione delle piattaforme sono al passo con i tempi”, aggiunge. 

 

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“Penso che nell’Unione la linea vincente in questo momento sia quella protezionista promossa dai francesi, d’altro canto noi europei dobbiamo accettare che non avremo qualcosa di paragonabile a Facebook e Amazon. Il ritardo è incolmabile, basti pensare che queste aziende, messe insieme, capitalizzano più della somma di tutte le Borse del Vecchio continente”, spiega al Foglio Alessandro Aresu, autore del libro “Le potenze del capitalismo politico: Stati Uniti e Cina” (La Nave di Teseo) e direttore scientifico della Scuola di Politiche. 

 

Dal Financial Times la scorsa settimana è partito l’invito a ripensare la normativa per i colossi del digitale in un quadro transatlantico, ora che con la prossima Amministrazione Biden si ci sarà una distensione dei rapporti. “Il ripristino della fiducia nel settore pubblico deve essere l’obiettivo finale di qualsiasi nuova relazione transatlantica”, scrive l’editorialista Rana Foroohar. Dello stesso avviso sembra essere la Germania, che vorrebbe iscriversi in una logica euro-americana, quanto meno per contenere il protagonismo francese. Alcuni a Bruxelles pensano che una simile intesa possa controbilanciare la spinta protezionista che vuole imprimere la Francia. Con mosse felpate, senza protagonismo o annunci clamorosi, la Germania preme per l’ipotesi di un negoziato, non fosse altro per poter dire: “Questo gli Stati Uniti non lo accetteranno mai, lo sai”, e smorzare così le ambizioni di Breton. Eppure pensare a un patto transatlantico esteso pone alcune questione, e diversi ostacoli. “Quello che succede in Europa, a livello di regolamentazione, non potrà mai essere ciò che influisce davvero sul mondo della tecnologia per come lo conosciamo. Per il semplice fatto che la costruzione di Internet è una costruzione statunitense e le imprese più importanti sono statunitensi. Se l’Europa deve regolamentare aziende straniere, e gli Stati Uniti le loro più importanti aziende nazionali, non ci possono essere interessi convergenti”, avverte Alessandro Aresu. Biden, piuttosto che imbarcarsi in un patto transatlantico, difenderà le piattaforme americane? “La strategia difensiva delle Ott continuerà a essere basata sul fatto che sono imprese importanti per gli Stati Uniti, e che gli Stati Uniti questo lo sanno. Il fatto che noi europei abbiamo da tempo impostato il dibattito sulle tasse, sulla web tax, con una posizione per definizione debole, può impedirci di trovare un compromesso con gli Stati Uniti. E’ evidente che, come hanno fatto finora, gli Stati Uniti combatteranno affinché i guadagni generati da queste grandi imprese rimangano negli Stati Uniti, e non vadano altrove. Sotto forma di tasse, o come profitti reinvestiti, purché in patria”. 

 

Ci sono altri settori, però, su cui una maggiore collaborazione tra Europa e Stati Uniti è possibile, strategica, e auspicata anche a Washington. “In particolare sugli standard delle telecomunicazioni, come quelli per il 5G. Perché lo scenario industriale in questo campo è molto diverso, qui esistono imprese europee importanti, ed esiste un deficit industriale americano, che è stato messo in evidenza dall’ascesa cinese nel settore. E poi c’è una capacità finanziaria americana rilevante, che può giovare sia per investimenti interni sia da noi in Europa. Qui si realizza una convergenza, per motivi economici e legati alla sicurezza nazionale”, dice Aresu. Ma in un’ottica europea, regolamentare solo gli standard per il 5G non è sufficiente: “La verità è che la concentrazione del potere digitale dovrebbe essere criticata da sinistra, come minaccia per la democrazia costituzionale, e da destra, come minaccia al libero mercato e al principio di libera concorrenza”, è la sentenza di Paul Nemitz. E infatti questo dibattito negli Stati Uniti è trasversale, oltre che vivace, con dubbi sollevati dalla Scuola di Chicago come dall’ala sinistra dei democratici, a cominciare da Elizabeth Warren, madrina della proposta di “spacchettamento” di Amazon e Facebook. Il clima è cambiato oltreoceano rispetto all’inizio del decennio, e anche su questo punto insiste l’editoriale del Financial Times che invita al patto transatlantico: “Questo è un momento cruciale per inviare un segnale su come il nuovo presidente intende controllare l’industria Big Tech, oppure non farlo. La regolamentazione europea non è perfetta, ma è di gran lunga migliore di quella che hanno gli Stati Uniti (...) Il settore pubblico ha bisogno di entrate. E l’Amministrazione Biden non può permettersi di essere così a suo agio con la Silicon Valley come lo è stata l’ultima Amministrazione democratica. La percezione che i democratici siano troppo sensibili agli interessi delle multinazionali è una delle ragioni per cui abbiamo avuto il signor Trump”. 

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Biden non potrà essere tenero come lo è stato Barack Obama, al potere quando la lente con cui i cittadini americani (e l’antitrust) guardavano ad Amazon, Google, Facebook era solo quella della benevolenza o dell’ammirazione. “Il comportamento di Biden sarà diverso – conclude Aresu – Questo non significa cedere all’ala ‘socialista’ dei democratici, ma tutte le parti in causa oggi sono consapevoli che siamo in una nuova era. Percorsi come quello di Eric Shmidt, fondatore e amministratore delegato di Google, grande donatore della campagne di Obama e Hillary Clinton, con incarichi pubblici in vari board governativi, compreso il dipartimento di difesa, è difficilmente replicabile. Oggi al suo posto andranno ricercate figure meno ‘targate’. Ma le porte girevoli tra grandi burocrazie e capitalismo privato, sia finanziario sia tecnologico, sono parte integrante del sistema statunitense, e non si sono certo esaurite”.  Soprattutto in questa fase storica, dove la potenza americana ha bisogno della sua potenza tecnologica per difendere una leadership mondiale.

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