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Cos’è uno stato? Lo deciderà il G 20 e (forse) si farà chiarezza sulla web tax

Eugenio Cau

La discussione sulle tasse digitali va avanti da così tanto tempo che ormai è arrivata alle domande ultime

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Alcune discussioni vanno avanti per così tanto tempo che a un certo punto assumono una condizione di rarefazione. Si comincia parlando di una questione concreta, ci si trova in disaccordo, e più il disaccordo è profondo più gli argomenti diventano ampi, generali, e infine, in qualche caso, si arriva alle domande ultime.

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Alcune discussioni vanno avanti per così tanto tempo che a un certo punto assumono una condizione di rarefazione. Si comincia parlando di una questione concreta, ci si trova in disaccordo, e più il disaccordo è profondo più gli argomenti diventano ampi, generali, e infine, in qualche caso, si arriva alle domande ultime.

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Per esempio: cos’è uno stato? Secondo l’Economist, è ciò che si dovranno chiedere i ministri delle Finanze del G20 quando si incontreranno in teleconferenza oggi e domani. Tra i temi in agenda c’è la risposta finanziaria alla pandemia da coronavirus, ma sono due gli elementi più interessanti. Il primo riguarda l’ipotesi di rimandare all’anno prossimo il pagamento del debito che 73 paesi poveri hanno nei confronti dei paesi del G20.

 

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I ministri delle Finanze hanno già deciso ad aprile che il debito sarà rimandato, ma non si sono ancora accordati su cos’è il prestito di uno stato a un altro. Gli americani, per esempio, sostengono che tra i pagamenti rimandati dovrebbero esserci anche quelli alle banche di stato cinesi, che in Africa e in America latina prestano miliardi di dollari per infrastrutture e progetti di sviluppo. I cinesi, ovviamente, preferirebbero di no – e giù a discutere di cos’è uno stato, e di quali sono i crediti che può e non può esigere da altri stati.

 

Poi c’è la web tax, che è una questione molto intricata che tutto l’occidente rincorre da anni e che è arrivata a una domanda essenziale: fin dove può arrivare il potere di uno stato? Il dibattito attorno alla web tax più o meno lo conosciamo: le grandi aziende digitali sono accusate di eludere miliardi su servizi immateriali trasferendo utili in forma immateriale da un confine all’altro.

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I paesi europei vogliono imporre una web tax per rientrare un po’ di questa presunta tassazione mancata, le aziende ovviamente non sono d’accordo e dicono che le loro tasse le pagano già, gli Stati Uniti sono contrarissimi perché le aziende in questione sono quasi tutte americane, e l’Amministrazione Trump minaccia sanzioni. 

 

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Alcuni paesi la web tax l’hanno già approvata: Francia, Regno Unito, Spagna e anche l’Italia. Ma l’hanno tenuta in ghiacciaia perché temono le ritorsioni del presidente americano, che ha già agito contro i francesi, imponendo dazi del 25 per cento su importazioni del valore totale di 1,3 miliardi di dollari, tra cui borsette firmate e prodotti di bellezza (ma non il vino).

 

In altre occasioni Trump ha minacciato dazi anche contro i prodotti italiani. Così è cominciato un negoziato di cui non si vede più la fine. Gli americani prima si dicono pronti al compromesso e poi ritrattano, gli europei dapprima fanno la faccia dura e poi si spaventano, l’Unione europea aveva annunciato che entro la fine dell’anno avrebbe lanciato il suo piano per una tassazione digitale, ma poi ha fatto sapere in via non ufficiale che probabilmente ne ritarderà la presentazione, non si sa mai.

 

Tutti annunciano in pubblico che sono stati fatti grandi progressi e che siamo a un passo da un accordo, ma nessuno ci crede davvero. L’accordo dovrebbe trovarsi in sede Ocse, ma anche al G20 dei ministri delle Finanze, ha scritto l’Economist, se ne continuerà a parlare e parlare, allo sfinimento.

 

A vederla così, la contesa sembra molto tradizionale: capitale contro capitale, cancelleria contro cancelleria, come una volta. Ma è la natura immateriale dell’oggetto del dibattito a porre la domanda: cos’è lo stato? Non si parla di tassare l’esportazione dell’acciaio ma di tassare dati e transazioni e vendite di prodotti che esistono soltanto come codice binario, e che quando sono stati inventati gli stati ancora nessuno li aveva immaginati nemmeno da lontano.

 

Si parla di aziende che hanno sì una sede legale e un quartier generale, ma che in realtà, l’abbiamo visto in questi mesi di crisi sanitaria, potrebbero essere gestite da qualche migliaio di persone sparse per il mondo che non hanno mai bisogno di incontrarsi. La stessa web tax è un palliativo: un’imposta aggiuntiva per sopperire al fatto che gli utili che gli stati vorrebbero tassare per davvero sono per loro irraggiungibili.

 

E mentre i ministri delle Finanze del G20 si interrogano su tasse di impossibile applicazione, pochi giorni fa un gruppo di 83 milionari e miliardari, tra cui la bisnipote di Walt Disney e Jerry del gelato Ben & Jerry’s, ha firmato una lettera indirizzata al G20 dei ministri delle Finanze e al Consiglio europeo in cui chiedono con tono un po’ disperato di essere tassati: “Abbiamo un sacco di soldi”, scrivono. “Tassateci. Tassateci. Tassateci. E’ la scelta giusta da fare”. Gli stati non sanno più come comportarsi, i miliardari, alcuni, provano a tornare alle origini: a quel che è materiale.

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