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Taglie in bitcoin

Eugenio Cau

I venture capitalist e gli imprenditori americani si accaniscono contro il New York Times perché li tratta male

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Milano. Ricorderete il techlash. Prima che il coronavirus occupasse tutti i nostri pensieri, il techlash era abbastanza in alto tra le cose che tenevano impegnati molti giornalisti, ed era quel fenomeno per cui il mondo della tecnologia, dopo anni trascorsi come beniamino assoluto di tutte le società occidentali, si era trasformato in un mostro irriconoscibile: Facebook ci vende i dati, Google ci spia, e così via, ormai lo sappiamo. Il techlash è una cosa da giornalisti e analisti, nel senso che se ne scrive molto ma poi tutti hanno continuato a usare Facebook proprio come prima. Ma piano piano il ripudio di Big Tech si è fatto strada nella società, e se qualche anno fa i leader della Silicon Valley erano giovani eroi visionari adesso sono unanimemente considerati capitalisti rapaci – non che ci sia niente di male, giusto che essere un giovane eroe è più piacevole. Alcuni di questi eroi decaduti si sono risentiti più di altri, e qualche settimana fa hanno deciso di rispondere attaccando i giornalisti. Ora, la polemica è nata e si è sviluppata su Twitter, e come tutte le polemiche nate sui social è piena di rivoli e sotto-polemiche che a stare dietro a tutte ci si perde le giornate, ma più o meno è andata così.

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Milano. Ricorderete il techlash. Prima che il coronavirus occupasse tutti i nostri pensieri, il techlash era abbastanza in alto tra le cose che tenevano impegnati molti giornalisti, ed era quel fenomeno per cui il mondo della tecnologia, dopo anni trascorsi come beniamino assoluto di tutte le società occidentali, si era trasformato in un mostro irriconoscibile: Facebook ci vende i dati, Google ci spia, e così via, ormai lo sappiamo. Il techlash è una cosa da giornalisti e analisti, nel senso che se ne scrive molto ma poi tutti hanno continuato a usare Facebook proprio come prima. Ma piano piano il ripudio di Big Tech si è fatto strada nella società, e se qualche anno fa i leader della Silicon Valley erano giovani eroi visionari adesso sono unanimemente considerati capitalisti rapaci – non che ci sia niente di male, giusto che essere un giovane eroe è più piacevole. Alcuni di questi eroi decaduti si sono risentiti più di altri, e qualche settimana fa hanno deciso di rispondere attaccando i giornalisti. Ora, la polemica è nata e si è sviluppata su Twitter, e come tutte le polemiche nate sui social è piena di rivoli e sotto-polemiche che a stare dietro a tutte ci si perde le giornate, ma più o meno è andata così.

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Una settimana fa Taylor Lorenz, giornalista del New York Times molto famosa che si occupa di tecnologia, scrive su Twitter una critica piuttosto dura nei confronti di Steph Korey, ceo di una startup caduta in disgrazia dopo un’inchiesta giornalistica. Entra in scena Balaji S. Srinivasan, un venture capitalist e imprenditore e una personalità nota in Silicon Valley, che di rimando attacca la giornalista Lorenz: scrivi falsità e non hai idea di ciò di cui parli, twitta Srinivasan. A questo punto comincia una rissa da saloon a cui partecipano man mano figure sempre più celebri. Da un lato le redazioni tecnologiche e non solo di molti grandi giornali americani difendono la Lorenz, accusando Srinivasan di harassment. Dall’altro imprenditori e venture capitalist sempre più grossi e importanti tra cui Ben Horowitz e Paul Graham, che sono tra i numi tutelari dell’imprenditoria tecnologica americana e muovono decine se non centinaia di milioni di dollari tutti gli anni, si schierano con Srinivasan e accusano i giornalisti di essere ingiusti e imparziali nei confronti del settore tecnologico.

 

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I più agguerriti accusano Lorenz di cancel culture, e Srinivasan promette perfino delle taglie in bitcoin (!) a chi farà il meme più cattivo contro i giornalisti tecnologici e a chi riuscirà a dimostrare che il mondo del giornalismo è razzista tanto quanto quello della tecnologia. Primo premio mille dollari. Alcuni venture capitalist organizzano anche una specie di sciopero: smettiamo di parlare con i giornalisti del New York Times, che sono i più parziali e ingiusti contro di noi, e teniamoli a secco di notizie. Lo scontro si sposta su un altro social media che si chiama Clubhouse, a un certo punto compaiono registrazioni segrete, ma tralasciamo i drammi social.

 

La questione interessante è l’accusa degli imprenditori e investitori siliconvallici: i giornalisti usano impropriamente il loro potere e si accaniscono ingiustamente contro aziende che cercano soltanto di fare il loro lavoro. Non solo: la qualità del giornalismo è peggiorata, ormai sono tutti più attenti ai clic che alle notizie, e la professione ha perso la sua aura mistica. Se prima i giornalisti erano semidivinità capaci di amministrare la verità, oggi sono “dei semplici utenti Twitter”, come ha scritto Paul Graham. Grazie alla tecnologia sono scesi al livello dei comuni mortali, un livello in cui il tweet di Mario Rossi vale quanto un articolo del New York Times. E dunque, procede il ragionamento, perché mai gli imprenditori tecnologici dovrebbero accettare le critiche dei giornalisti?

 

È un ragionamento molto simile a quello usato dal presidente americano Donald Trump: i media sono fake e screditati, il rapporto di fiducia con i lettori è ormai disintermediato dalla tecnologia e interrotto, non ha più senso fidarsi del giornalismo per discernere i fatti. Ma mentre Trump ha un interesse personale, il sentimento prevalente tra gli imprenditori tecnologici è quello della rivalsa corporativa: siamo stanchi di essere criticati, dissezionati, analizzati. Vogliamo tornare ai vecchi tempi in cui i giornalisti ci trattavano come visionari che avrebbero cambiato il mondo. Il problema è che oggi molti giornalisti pensano che la Silicon Valley abbia sì cambiato il mondo, ma in peggio. E se il giornalismo è sempre più parziale e opinionated – problema vero –, anche questo è un effetto collaterale della tecnologia, che ha ucciso i vecchi media e trasformato ogni cronista in un brand.

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