Un'auto sfreccia davanti al quartier generale di Facebook a Menlo Park, California (foto LaPresse)

Zuckerberg ha un'arma per sopravvivere al Congresso: le divisioni politiche

Eugenio Cau

Martedì e mercoledì il ceo di Facebook è in udienza davanti al Congresso americano sul caso Cambridge Analytica. Zuck ha promesso che cambierà, ma in realtà sta lottando per non cambiare

Roma. Il grand tour di pentimento di Mark Zuckerberg tra New York e Washington, prima nei salotti televisivi e nelle redazioni dei giornali per un giro di interviste tutte uguali che ha interessato tutti i principali media e poi, tra martedì e mercoledì, nelle sale del Congresso e del Senato americani, ha un obiettivo fondamentale: evitare che l’opinione pubblica e, soprattutto, i legislatori si rivoltino contro Facebook e promuovano un qualche sistema di regolamentazione del social network che lo costringa a modificare il proprio modello di business basato sullo sfruttamento dei dati personali degli utenti. In sintesi: qualsiasi promessa di cambiamento faccia Zuckerberg davanti ai giornalisti e ai politici, Facebook in realtà sta lottando per non cambiare.

  

 

Zuckerberg ha parlato martedì davanti a una sessione congiunta della commissione Giustizia e della commissione per il Commercio, la scienza e i trasporti del Senato. Mercoledì, lo show si ripete davanti alla commissione Energia e commercio del Congresso. Soltanto lo scorso ottobre, senatori e rappresentanti avevano interrogato (piuttosto duramente) gli avvocati di Facebook, Google e Twitter – i ceo non si erano degnati di rispondere all’invito dei legislatori. Ma gli ultimi mesi sono stati terribili per Facebook, la posta in gioco è diventata altissima, e Zuckerberg è stato costretto a togliere la maglietta grigia e i jeans – simbolo jobsiano di tutto ciò che Facebook rappresenta – e indossare una cravatta per salire sul Campidoglio.

 

Marck Zuckerberg a Capitol Hill (foto LaPresse)


   

Non tutti però concordano sul fatto che il social network più importante del mondo debba cambiare. Sul Wall Street Journal di martedì l’analista conservatore Chris Wilson, che è stato capo della campagna digitale di Ted Cruz durante l’ultima campagna elettorale, ha scritto un op-ed battagliero intitolato “Il Gop ha bisogno di Facebook libero” in cui sostiene che è meglio tenersi Facebook così com’è, con tutti i suoi giganteschi difetti, piuttosto che regolarlo e vederlo trasformato in un altro strumento mediatico compromesso dal “liberal bias”, cioè tendente a sinistra, come già lo sono giornali e tv. “I network online hanno consentito ai conservatori di comunicare con gli elettori senza il filtro dei media liberal”, scrive Wilson, secondo cui i pericoli di interferenza di potenze straniere sono un male minore e sopportabile: se Hillary Clinton avesse visitato il Wisconin e avesse evitato di chiamare gli elettori “deplorables”, avrebbe spostato molti più voti di qualsiasi operazione russa sotto copertura.

   

Wilson non è l’unico a pensarla così. Il presidente Donald Trump ha detto che il suo obiettivo principale è Amazon, non Facebook o i social media, e molti conservatori sono titubanti davanti alla possibilità che la spinta per la regolamentazione in favore degli utenti si trasformi in normalizzazione.

   

La battaglia intorno a Facebook in questi ultimi due anni è stata strattonata da tutte le parti. Se oggi i liberal vogliono la testa di Zuckerberg perché Facebook ha consentito che orde di pirati dei dati facilitassero (o provocassero, a seconda delle gradazioni di indignazione) la vittoria di Donald Trump e la Brexit, due anni fa quelli indignati con Facebook erano i conservatori, a causa del celebre scandalo dei “Trending topics”, news e articoli che i redattori non assunti di Facebook mettevano in evidenza sul social censurando sistematicamente i temi cari ai conservatori – secondo molte ricostruzioni, il disastro di Facebook sulle fake news nacque da lì: colpito dal caso dei “Trending topics”, Zuckerberg decise di limitare gli interventi del social network sui contenuti per non apparire troppo di parte.

  

Insomma: se fino a un paio d’anni fa i liberal volevano difendere Facebook, considerato un alleato, dalla regolamentazione, oggi spingono per nuove norme, e sono invece i conservatori a essere passati dalla critica a temere che la regolamentazione diventi meno conveniente dello status quo.

  

Questo è il miglior spiraglio che Zuckerberg può sfruttare per resistere allo scandalo di Cambridge Analytica. Una volta trascorso il clamore mediatico delle audizioni al Congresso, i legislatori dovranno decidere se agire o no contro il social network, e sarà a quel punto che usciranno tutte le contraddizioni – sapientemente amplificate, siamo pronti a scommettere, dai lobbisti di Menlo Park. Zuckerberg lo sa, ed è anche per questo che nel suo grand tour non ha fatto promesse e non si è compromesso in alcun modo. Il suo scopo principale è placare l’indignazione con scuse ben pronunciate, e attendere che il momento difficile passi senza danni.

Di più su questi argomenti:
  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.