
Larissa Iapichino con il padre e allenatore Gianni Iapichino, foto Ansa
Quei romanzi familiari sportivi. La non sempre facile convivenza tra atleti e padri allenatori
C'è chi non potrebbe farsi allenare da qualcun altro, chi invece proprio per questo ha iniziato a odiare un genitore. Rischi e benefici di portarsi il campo d'allenamento a casa e la casa al campo d'allenamento
Con il suo gusto del paradosso, Adriano Panatta un giorno azzardò che i campioni dovrebbero essere orfani. Dietro la battuta si nasconde la verità di molti padri (e madri, perché no) eccessivamente presenti e pressanti rispetto alla carriera dei figli. Poi c’è chi ci mette sopra il carico: sono quelli che costruiscono un ulteriore legame sul rapporto genitore-figlio, gli atleti che scelgono di farsi allenare dal padre o dalla madre con il rischio (o meglio: la certezza) di portarsi il campo a casa. Gli esempi sono tanti, soprattutto nell’atletica azzurra: da Tortu a Furlani, da Battocletti a Iapichino. Senza contare i rapporti che sono saltati.
Dietro l’estroversione a volte esagerata di Gianmarco Tamberi c’è l’ombra del dualismo con il padre ex saltatore, Marco (di cui, già nel nome, è una sorta di copia). Inutile proiettare il film di una vita. Spoiler: alla fine i due hanno definitivamente rotto. Con un comunicato alla vigilia dei Mondiali di Eugene, a luglio 2022, il campione olimpico di salto in alto annunciò il licenziamento dell’allenatore-padre. "È una decisione che stavo considerando da tempo, perché in questi anni di collaborazione a grandi risultati si sono alternate altrettanto grandi divergenze". Tredici anni di rapporto professionale che hanno portato a un’interruzione ben più dolorosa. Quando ha vinto il primo Mondiale, a Budapest 2023, Gimbo lo ha dedicato a Marco. "Non ci parliamo da un po' di tempo ma questa medaglia è anche sua, lo devo a lui se salto". Però ci sono casi anche più drammatici: quello di Gjert Ingebritsen, per esempio, che fu accusato di abusi fisici e mentali dai tre figli atleti-allievi.
La questione è semplice: essere allenati da una persona così vicina ti fa rendere di più o ti taglia le gambe? Giorgio Cagnotto ha detto che il ruolo di papà e quello di allenatore di sua figlia sono stati due rette parallele, non si sono mai incontrati, ma quando Tania ha lasciato i tuffi ha ammesso: "Ora me la godrò di più". Salvino e Filippo Tortu vivono e si allenano insieme, non c’è traccia di distanza. "Mio padre sta con me, in tutto e per tutto. Dopo la finale olimpica abbiamo pianto per giorni. L’oro di Tokyo è più suo che mio". Mattia Furlani, bronzo olimpico nel salto in lungo a Parigi e argento agli Europei di Roma poche settimane prima, si allena con la mamma Kathy Seck, ex velocista. "Mia madre è un angelo, nessuna interferenza". Larissa Iapichino salta in lungo come mamma Fiona e ha provato diversi allenatori prima di arrendersi all’evidenza: nessuno la conosce meglio del suo babbo, Gianni. "Mi sgrida sempre, abbiamo caratteri molto simili. Ma riusciamo benissimo ad essere professionali quando serve, e a tornare padre e figlia quando chiudiamo la porta di casa". Ora Larissa è andata a vivere da sola, ed è ancora più facile distinguere i piani. Certamente mischiare i ruoli, anzi sommarli, è un modo di complicarsi la vita. A meno di essere beati come Nadia Battocletti. "Con papà non litighiamo, non è strano farsi allenare da lui. Anzi, è naturale".
Andatelo a raccontare ad Andre Agassi. La più celebre delle autobiografie sportivi, Open, è in fondo il racconto dell’odio per il padre, che lo aveva obbligato a giocare, e quel gioco diventa poi odio per il tennis. Ex pugile, Agassi senior inventa una macchina sparapalline (che il piccolo Andre chiama il Drago) facendo del figlio "un pugile con la racchetta da tennis". La sindrome della riuscita, quel demone che dice "tu riuscirai dove io ho fallito", ha creato dei mostri. Anche Steffi Graf, che poi è diventata la moglie di Agassi e la madre dei suoi figli, era afflitta da un padre-padrone: non aveva ancora tre anni quando Peter le mise una racchetta in mano. “Se fai quello che ti dico io diventerai la numero uno del mondo".
Ma allora: funziona o no? Conviene oppure no? Bisogna trovare un modus (con)vivendi. Perché l’allenatore in certi momenti lo devi odiare, è quello che ti impone la fatica, che ti dice tanti no, che ti fa fare ancora un giro di pista quando non ne puoi più. E se è lo stesso che poi a casa ti prepara la cena, quello che ti veniva a prendere la notte perché non avevi ancora la patente, aiuto. È tutto un equilibrio sopra la follia.