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Il Foglio sportivo

“Ho scoperto Ibra, allenato Zico, fantasticato con Berlusconi e consolato Allegri ”. Intervista a Galeone

Antonello Sette

L'ex allenatore ripercorre la sua carriera tra campo, mare e aneddoti. Da Napoli a Udine, fino a Pescara. Il calcio di oggi? "Non mi piace soprattutto quello italiano. Salvo qualche partita inglese e il Borussia Dortmund"

"Dio ha inventato prima il pallone e poi Giovanni Galeone”, era scritto su uno striscione a Pescara.

Il diretto interessato conferma l’iperbole divina?
“Se è per questo hanno anche aggiunto ‘Giovanni vai a insegnarlo’. Era lungo e largo come tutta la curva dell’Adriatico”. 

Profeta di un calcio che, ahimè, non c’è più, Galeone, napoletano di nascita e giramondo per destino e vocazione, non ha perso, a 82 anni suonati da un po’, il gusto della vita e lo stupore per la felicità regalatagli dal dio pagano, che chiamano pallone.Il viaggio è stato lungo e glorioso. Da dove cominciamo?
“Forse da quando a sei anni ho percorso tutti d’un fiato gli 870 chilometri che separano Napoli da Trieste, dove mio padre, che lavorava come ingegnere all’Ilva, era stato trasferito”.

Passano dieci anni e lei si ritrova a giocare in una fantasmagorica Nazionale giovanile, fianco a fianco con il futuro gotha del football di casa nostra. Sono stati quelli “Gli anni più belli”, come titolerebbe Gabriele Muccino?
“Corso, Trapattoni, Albertosi, Salvadore, Bolchi, Trebbi, Lodetti… Dio mio quanti ce n’erano. Io e Mariolino eravamo gli unici due che ancora giocavano fra i dilettanti. Io a Trieste nella Ponziana, lui a Verona nell’Audace San Michele. Nel primo dei due anni, in cui ho fatto in tempo a giocare in quella portentosa Nazionale, abbiamo vinto il titolo di campioni d’Europa battendo in finale l’Inghilterra. L’anno dopo abbiamo perso all’ultimo round. Nel frattempo, erano andati tutti via ed era subentrata la nuova nidiata dei Facchetti, Rosato, Cella e Paolone Ferrario. Della nuova brigata ero, per diritto di anzianità, il capitano. Eravamo giovani e forti”.

Pescara era ancora lontana…
“Pescara è arrivata molti anni dopo, nel 1986, dopo 17 anni da calciatore e una trafila come allenatore a Udine, Pordenone, Adria, San Giovanni Valdarno, Cremona e Ferrara. Pescara arriva senza preavviso, per pura fatalità. Il Modena era stato promosso in Serie B. Io ero l’unico allenatore di altre squadre a essere stato invitato alla festa per la promozione, nella villa di Antonello Farina. Suo figlio Francesco, per chi non lo sapesse, del Modena era il presidente in carica. Stavo passeggiando con il padrone di casa e sua figlia, quando ci imbattiamo in Franco Manni, storico dirigente dell’Inter di Helenio Herrera, che all’epoca era il direttore sportivo del Pescara. Era disteso su un’amaca, su cui beatamente dondolava. Antonello Farina coglie la palla al balzo e  gli dice: “So che stai cercando un allenatore. Io, se non avessi vinto il campionato, prenderei lui, senza neppure pensarci un attimo”.  Poco tempo dopo, mentre ero in vacanza in Sardegna, squilla il telefono. Era Manni, che, dopo un iniziale tira e molla, aveva finalmente deciso di affidarmi la panchina del Pescara. Ho preso il primo aereo e ho firmato il contratto. Su quell’amaca di Villa Farina aveva dondolato ed era girato anche il mio destino”.

Vinse subito il campionato di Serie B.
“Davanti al Pisa allenato da Gigi Simoni. Più distanziato, per l’esattezza al sesto posto, si classificò Arrigo Sacchi con il Parma. Poi, però, accadde l’imponderabile. Dopo un incontro di Coppa Italia, Silvio Berlusconi fu, come San Paolo, folgorato sulla via di Damasco e lo volle fortissimamente al Milan, dove avrebbe fatto, come è noto, cose egregie. Subito dopo aver vinto il primo scudetto, Sacchi mi invitò alla sua festa a Fusignano. Ero l’unico allenatore di Serie A a brindare insieme a lui”. 

Se pensa a un maestro, chi le torna in mente?
“Nils Liedholm è uno di quelli che più hanno fatto la storia del calcio italiano. Resta un maestro come modo di disporre la squadra in campo. Come idea di gioco, forse un po’ meno. Era un antesignano del presunto toccasana del possesso palla. Pensava che più hai la palla fra i piedi, meno possibilità hanno gli avversari di far gol. A me, come sa, piace più offendere che difendere. Il possesso palla mi stufa subito e mi annoia terribilmente”.

Oggi, però, il possesso palla lo predicano tutti.
“Lo so bene, ma penso che non sia un caso che chi lo ha portato alle estreme e più redditizie conseguenze, come Pep Guardiola, stia palesemente facendo molti passi indietro e adotti ora schemi molto più in verticale”.

Nella sua vita è accaduto un po’ di tutto. Ha, tanto per cominciare, avuto in organico come calciatore, Max Allegri, che sarebbe diventato un suo grande amico nella vita, oltre che un allenatore di livello internazionale. A proposito, è vero che era fra gli invitati eletti di un matrimonio che è naufragato poche ore prima del fatidico sì?
“Per la verità me ne stavo beatamente in Sardegna quando mi ha chiamato per comunicarmi che non si sposava più. Erano le dieci del mattino. Avrebbe dovuto convolare a giuste, che evidentemente tanto giuste non erano, nozze a mezzogiorno in punto. L’avevo già sentito il pomeriggio prima e ne avevo raccolto, come un padre, tutte le perplessità. Diceva che lo avevano martellato perché la conosceva dalla giovinezza. Durante la notte deve aveva maturato il clamoroso dietrofront. Di sposarsi proprio non se la sentiva e aveva solo voglia di andar via. Di lì a poco sono andato a prendere l’ex promesso sposo all’aeroporto di Alghero”. 

Ad Allegri la lega anche la passione per il mare?
“Lui, a dispetto di quanto si pensi e si dica, non è un maniaco del mare. Da buon livornese gli piace, ma non quanto a me. Io mi chiamo Galeone, sono nato a Napoli e da lì sono andato a Trieste e a Pescara. Io ho sempre vissuto in mezzo al mare. Devo alzarmi la mattina e guardarlo, non c’è niente da fare”. 

Sulla passione per le belle donne non ci sono mai state, invece, discrepanze?
“Lui ha avuto, in questo senso, molta fortuna. Io, che vuole che le dica, sto con mia moglie Annamaria da mezzo secolo, mese più, mese meno. Quella dello sciupafemmine è una leggenda inventata di sana pianta. Anche se, a essere sincero, non ero per niente male. Quando da giovane andavo a Grado a fare le sabbiature, c’erano Gigi Riva, Angelo Sormani e altri calciatori belli e famosi, ma più di una ragazzina li lasciava perdere e veniva appresso a me”.

Poi, ci sarebbe stata, se non erro, l’avventura di un lungo e amabile colloquio in piena notte con Silvio Berlusconi, reduce dalla Coppa dei Campioni conquistata a Vienna il 23 maggio 1990…
“Durò per l’esattezza continuativamente dalle due alle cinque. Nel corso della mia vita ho assistito a quattro finali di Coppa dei Campioni e tutte e quattro le volte ha vinto una squadra italiana: tre il Milan di Sacchi e una la Juventus di Marcello Lippi”.

Ricorda che cosa vi siete detti?
“Abbiamo parlato di calcio senza naturalmente trascurare Sacchi, che era lì con noi. Berlusconi era euforico per la coppa appena vinta e gli piaceva fantasticare di formazioni e strategie. Quel Milan di giocatori ne aveva talmente tanti, che qualche volta non si accorgevano di averne messi virtualmente in campo dodici e di aver, di conseguenza, prefigurato creazioni di superiorità numeriche in realtà fasulle”.

Da Sacchi a Maradona, che voleva portarla al Napoli…
“Me lo ha detto personalmente lui, una volta che l’ho incontrato. Luciano Moggi, che all’epoca era il direttore sportivo del Napoli, mi ripeteva che il piccoletto mi voleva a tutti i costi e mi ha anche bacchettato perché si era convinto che io avessi firmato per la Roma. Non era assolutamente vero. Alla fine della fiera, non sono andato né alla Roma, né al Napoli”.

Quale è il giocatore più forte che ha allenato?
“Sicuramente Zico, ma all’Udinese davo solo una mano. Da allenatore in proprio ho avuto al Pescara Leo Junior e, soprattutto, Blaz Sliskovic, un genio, un funambolo capace di giocate pazzesche. Uno che, se non era allo stesso livello di Maradona, ci mancava pochissimo”.

Le piace il calcio di oggi?
“No. Non mi piace soprattutto quello italiano. Salvo qualche partita del calcio inglese e il Borussia Dortmund. Da noi il calcio è troppo studiato e si è maniacalmente attenti e dediti alla fase difensiva. Io vengo dal basket, ho giocato nel Simmenthal Monza e, con i canestri al posto delle porte, ero il più forte fra tutti i calciatori. Non a caso mi chiamavamo ‘l’americano’. L’allenatore più vincente della storia del basket è stato e, forse lo è ancora, Zeliko Obradovic, che è stato al Real Madrid e al Barcellona e ora allena il Partzan di Belgrado. È uno che ha sempre studiato ogni dettaglio e pretende che si palleggi sino a un attimo prima dello scadere dei 30 secondi e che, se tiri e realizzi d’istinto una tripla al diciassettesimo secondo, ti manda direttamente quel paese. Il calcio in Italia è un po’ così. Giocano tutti come Obradovic. Li vedi vicino all’area di rigore avversaria e, in men che non si dica, correre all’indietro, come i gamberi e muovere la palla da un difensore all’altro, per poi allungarla al portiere. Da lì, o dal basso come si dice ora, si ricomincia. Altro giro, altra corsa. Prima in avanti e poi all’indietro. Cavolo, ma posso sapere quando attacchi? Dovrebbero introdurre la stessa regola del basket che ti obbliga a superare la metà campo e a concludere l’azione”.

La crisi della Nazionale è irreversibile?
“Una cosa è al momento irreversibile. La qualità complessiva è crollata verticalmente. Abbiamo avuto dei periodi in cui giocavano contemporaneamente geni del pallone e fenomeni assoluti del calibro di Cassano, Baggio, Mancini, Totti e Del Piero. Scegliere fra loro era praticamente impossibile. Abbiamo fatto un Mondiale schierando Paolo Rossi come centravanti e lasciando a casa un campione come Bruno Giordano. Abbiamo avuto a disposizione nello stesso ruolo Franco Causio, Bruno Conti e Claudio Sala. Anche dietro non eravamo messi male. Ci sono stati Scirea, Cabrini, Maldini, Baresi, Nesta e Cannavaro. Oggi questi giocatori neppure se li sognano. Non è un caso se non abbiamo partecipato a due mondiali consecutivi e rischiamo seriamente di non qualificarci neppure al prossimo. Ho la fondata impressione che per partecipare alla fase finale di un campionato del mondo, ci toccherà organizzarne in proprio uno”.

Ha qualche rimpianto?
“No. Ho fatto una buona vita. Mi sono divertito. Ho allenato grandi giocatori. Non ho mai avuto screzi particolari. Ho indovinato tante cose e altrettante ne ho sbagliate. Quando ero a Perugia, ho fatto giocare Giacomo Dicara e non Marco Materazzi, che poi è diventato campione del mondo. C’era un giocatore del Manchester United che si chiamava Adnan Januzai. Quando aveva 16 anni, avrei scommesso tutto l’oro del mondo su un suo futuro da campione. Dicevo a tutti che avrei smesso di allenare, se non fosse diventato un giocatore vero.  La sua carriera è stata, invece, complessivamente poca roba”. 

Qualcuno l’avrà azzeccato?
“Una marea. Quando esaltavo Boban e Prosineski, negli anni in cui giocavano nella nazionale giovanile della Jugoslavia, mi prendevano in giro, storpiando volutamente di Prosineski il cognome. Per non parlare di Zlatan Ibrahimovic…”.

L’ha scoperto lei?
“Quando a 18 anni giocava nell’Ajax ero già convinto che fosse un fenomeno e che sarebbe diventato, seppure con caratteristiche diverse, il nuovo Van Basten. Lo dissi a  tanti, a partire da Marco Giampaolo, credo fosse il 2000, che glielo può confermare. La Gazzetta dello Sport mi massacrò. Chi sarà mai questo Ibrahimovic, si chiesero e mi mandarono a dire,  a mo’ di sfottò”.

È stato molto amato?
“A Perugia e, soprattutto, a Pescara credo proprio di sì. Sono passati trent’anni dall’ultima volta, ma, quando mi vedono, lasciano la macchina in mezzo alla strada e corrono ad abbracciarmi. E nessuno di quelli che vengono dopo mi suona per protesta, ma aspetta tranquillamente che faccia un selfie con me e magari la fidanzata”.

Ricorda l’ultimo sogno che ha fatto?
“Sogno di allenare una squadra. Non mi fraintenda, Nessuno sguardo rivolto al passato. Nessuna malinconia. Nel calcio, quando sogno, ci sono ancora dentro e non ho mai smesso di allenare”.
 

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