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Nerazzurri a due volti

Inzaghi è un magnifico re di coppe: l’Inter avrebbe dovuto saperlo

Francesco Gottardi

L’allenatore che da settimane è sul banco degli imputati sta guidando la squadra alla miglior stagione europea dai tempi del triplete e ha già vinto tre trofei in meno di due anni. E' lui l'anti-Conte?

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Ci sono battesimi di fuoco che segnano un’intera carriera, e pure quella successiva. Alla sua prima stagione in Champions League, da attaccante, Simone Inzaghi realizzò nove gol di cui quattro in un solo match: nessun calciatore italiano ci sarebbe più riuscito. Correva il 2000, l’anno dell’ultimo scudetto della Lazio. Più in generale, Inzaghi fu il miglior marcatore di quella squadra soltanto grazie alle coppe – 12 reti su 19 realizzate al di fuori del campionato. E così si sarebbe confermato nell’arco del suo decennio in maglia biancoceleste: 0,21 gol a partita in serie A (28 su 133), il doppio (0,43: 27 su 62) in tutte le altre competizioni. Ne ha vinte sei e oggi altrettante da allenatore – più altre due sulla panchina della Primavera laziale. Quel tricolore invece resta l’unico.

Il complesso 2022/23 della sua Inter fa da cartina tornasole: tribolato in Serie A, ruggente altrove. Soprattutto negli appuntamenti europei, da Barcellona al Portogallo. Se dovessero continuare fino a Istanbul, sai che fine farebbero i brontolii attorno ai nerazzurri. In effetti, a ridare ossigeno e prestigio al profilo di Inzaghi, per ora basta lo 0-2 sul campo del Benfica martedì sera. Capolavoro e prova di forza per almeno due ragioni: aver annichilito il miglior attacco di questa Champions League (35 gol), all’andata dei quarti di finale; essere risorti nel momento del bisogno, dopo sei gare ufficiali senza vittorie e quattro ko nelle ultime cinque di campionato.

 

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È un cammino da proverbiale “pazza Inter”. Strapazzare il Milan in Supercoppa e subito dopo perdere in casa contro l’Empoli. Eliminare il Porto e nel mezzo inchinarsi a Bologna e Spezia. La partitaccia a Salerno appena prima del da Luz. Ma più delle dietrologie psicologiche, che pure si prestano a tanta incostanza, a spiegare tutto ciò funziona meglio la filosofia inzaghiana. Del prendere o lasciare.

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Premessa: magari Simone a leggere queste righe si irriterebbe un po’, perché qualunque allenatore vorrebbe vincere sempre e bene – un po’ come Allegri, quando gli danno dell’unoazzerista convinto. Poi però tocca fare i conti con la rosa a disposizione, l’attitudine dei singoli, mille altre variabili di campo che spesso cozzano con le proprie idee di calcio. E subentra un'inevitabile dipendenza dai risultati: si fa dunque ciò che riesce meglio. A Inzaghi, quello che riesce meglio è la partita da dentro o fuori. Fin da quand’era goleador, un marchio di famiglia se vi aggiungiamo Super Pippo in formato Champions.

È questione di atteggiamento, tensione nervosa. Ma da allenatore, soprattutto di un calcio che fa dell’intensità la principale prerogativa: se le sue squadre non vanno a mille, implodono. Succedeva questo alla Lazio, succede questo all’Inter. La gestione delle energie fisiche e mentali, nell’arco di una stagione, è un fattore clou. E riuscire a concentrarle a ridosso dei grandi appuntamenti è certamente un pregio: 12 sconfitte fin qui (dieci in campionato, cinque in casa) sono il caro prezzo da pagare. A giugno tutto dipenderà da quanto sarà ricco l’altro piatto della bilancia. E attenzione. In sette anni di carriera Inzaghi ha vinto sei trofei su sette finali disputate. In Champions, dove ogni gara è una finale, fin qui non è stato da meno. Nel 2020/21, alla guida della Lazio di ritorno nella competizione dopo 13 stagioni, ha chiuso il girone da imbattuto per poi uscire soltanto per mano del Bayern campione in carica. Da quando è sbarcato alla  Pinetina, l’Inter ha centrato l’accesso alla fase a eliminazione diretta per la prima volta dai tempi del triplete: la scorsa primavera ha sfiorato la rimonta ad Anfield contro il Liverpool futuro finalista, ora è a un passo dalle semifinali.

 

Per tutto questo Inzaghi si è sempre assicurato l’aiuto di giocatori a sua immagine e somiglianza, “belli di notte” e da battaglia: da Milinkovic a Dzeko, passando per Barella e una lunga serie di fondamentali comprimari – Murgia, Cataldi, Dimarco, Darmian. Può piacere oppure no. Ma il calcio è pieno zeppo di grandi allenatori-sprinter, che hanno fatto fortuna soprattutto nelle competizioni brevi. Si pensi ad Arrigo Sacchi: sette coppe, di cui due dei Campioni, e un solo tricolore al Milan. A Louis van Gaal, 9 dei suoi 12 trofei alzati fuori dall’Olanda non sono campionati – per non parlare del suo record ai Mondiali: 12 partite senza sconfitte. O a Zinedine Zidane, più Champions che titoli spagnoli in bacheca.

Per intenderci, all’estremo opposto troviamo un maratoneta come Antonio Conte: quattro Serie A e una Premier League su otto trionfi in carriera. È stato anche il predecessore di Inzaghi all’Inter: lui ha riportato i nerazzurri allo scudetto, Simone a tutto il resto. Vedete? Ognuno secondo le sue capacità. Va a finire che questa Inter non è poi così pazza.

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