Foto di Francois Mori, AP Photo, via LaPresse 

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Il francese Ceccarelli ci spiega il rugby champagne della Francia

Marco Pastonesi

Il pilone della Nazionale dal 2020 gioca in Francia, primo avversario degli azzurri nel Sei nazioni. Oltralpe il gioco è elegante, ispirato, spettacolare. Poi i tornei "sono duri dovunque. Per noi il primo comandamento è vincere la mischia". Ma comunque "nessuno gioca per soldi. È solo una bellissima parentesi". Intervista

Gli inglesi lo etichettano “French flair”: significa stile, ma anche senso, fiuto, intuito, attitudine. Gli italiani lo definiscono “rugby champagne”: frizzante, spumeggiante, inebriante, raffinato, selezionato. Loro spiegano che è semplicemente “il gioco alla francese”: elegante, ispirato, spettacolare.

 

La Francia del rugby: anno di fondazione 1905, oltre mezzo milione di tesserati, materia scolastica, la Nazionale seconda nella graduatoria mondiale fra gli uomini (prima l’Irlanda) e terza fra le donne (dietro a Inghilterra e Nuova Zelanda), paese organizzatore della Coppa del Mondo 2023 (dall’8 settembre al 28 ottobre), prima avversaria dell’Italia nel Sei Nazioni 2023 (oggi Galles-Irlanda alle 15.15 e Inghilterra-Scozia alle 17.45, domani all’Olimpico di Roma, alle 16, e in tv su Sky e TV8) e per molti la favorita sia del Sei Nazioni sia della Coppa del mondo. 

 

Pietro Ceccarelli, romano, 30 anni, 24 “caps” come pilone della Nazionale italiana, dal 2020 gioca in Francia, a Brive: “Top14, il massimo campionato. Un enorme seguito di spettatori, ascoltatori, lettori. Il quotidiano L’Equipe con servizi che a volte occupano tutta la prima pagina, il settimanale del lunedì Midi Olympique interamente dedicato alla palla ovale, la rivista La Montagne che si occupa delle regioni intorno al Massiccio Centrale, un canale televisivo di Canal Plus con le dirette delle partite, programmi di commenti prima e dopo le partite e altri di intrattenimento, poi la stampa locale, i siti, i social... Un torneo che mantiene le radici della tradizione e l’attrattiva dello spettacolo, il richiamo dei derby e il fascino della letteratura”.

 

Un torneo duro: “I tornei sono duri dovunque, qui in particolare, figurarsi in prima linea. Per noi il primo comandamento, ma anche il secondo e il terzo, è vincere la mischia. È, quello, il fulcro della partita. Spingere, non arretrare, ma avanzare, conquistare. La prima mischia, la più importante. Tutte le altre, non meno toste e impegnative. Vincere una mischia è come segnare una meta”.

 

La vita del rugbista: “Lunedì due allenamenti, martedì due, mercoledì uno, giovedì riposo, venerdì rifinitura, sabato partita. Campo e palestra, video e recupero attivo, a disposizione una minispa con vasche di acqua calda e fredda e una piscina. Il nostro centro sportivo risale a un anno e mezzo fa, con strutture all’avanguardia. Lo staff è composto da un allenatore-capo e tre assistenti, due per gli avanti e uno per i trequarti, un preparatore atletico con due assistenti, due medici, tre fisioterapisti con alcuni stagisti, uno specialista per l’analisi al video, un addetto alla logistica...”.

 

Il resto della vita del rugbista: “Abito da solo, nel contratto è prevista una quota per l’affitto della casa, ma ho acquistato una villetta con il giardino, anche come investimento, la quota per l’affitto mi viene comunque data. La lingua dipende dal club: quando l’allenatore-capo era inglese, si usavano francese e inglese; adesso, che l’allenatore-capo è francese, si usa il francese e lo si traduce a chi non lo conosce bene. Io, madre francese e bilingue fin dalla nascita, sono uno dei traduttori. E dopo le basi scolastiche e i due anni in Scozia giocando per Edimburgh, so anche l’inglese. In allenamento e in partita, invece, vale la lingua del campo, istintiva, fatta di sguardi, gesti e un gergo tecnico universale”.

 

Il professionismo ha cambiato il rugby? Ceccarelli: “Nessuno gioca per i soldi. Quando lo fa, allora smette. Alla base ci sono sempre passione e divertimento. E sempre i valori. Anche quelli più semplici. Come il terzo tempo, nella club house, alle pareti foto e targhe con i nomi degli internazionali: dopo la partita, tutti a tavola, un piatto di pasta e una birra, ma c’è anche chi non la beve. L’importante è conoscersi e condividere. Ho tanti amici anche fra gli avversari. Tutti sappiamo che questa è solo una bellissima parentesi della nostra vita”.

 

Dei 30 azzurri, giocano in Francia anche Paolo Garbisi, mediano di apertura a Montpellier, Ange Capuzzo, estremo nello Stade Toulousain, ed Edoardo Iachizzi, seconda linea a Vannes: “Non sono più gli anni in cui i francesi ci consideravano con sufficienza, adesso ci seguono, ci riconoscono, non ci sottovalutano. E ci apprezzano: Garbisi e Capuozzo sono giocatori fondamentali e spettacolari. Ma certo i francesi non ci guardano ancora con timore”. E le jeu à la française? “L’immaginazione al potere. Spazio per fantasia e improvvisazione. Certe volte ci guardiamo e c’interroghiamo: ma come diavolo avrà fatto?”.

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