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A Lionel Messi manca la mano di Dios

Giuliano Ferrara

L’altare di Maradona è cristico, luogo di dolore e trasfigurazione del male in bene, il palco del numero 10 dell'Argentina campione del mondo è una laica rappresentazione di successi, niente di più ovvio. Non si parla di idoli, ma di differenze tra moralismo e maledettismo

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Il moralismo e il calcio sono le due grandi passioni dell’epoca. Da specificare subito. Non il moralismo nel senso cinquecentesco e seicentesco, quello capace di dipingere l’uomo com’è, con i suoi perpetui passaggi di stato, il suo amor proprio anche cattivo e ostile verso gli altri, le sue disinibite vanità, i suoi inestricabili vizi, no, quello ottimista e ingenuo che guarda alla corruttela come a un tradimento della natura buona, rousseauiana, della creatura nuda. Da specificare inoltre. Non il calcio giocato professionalmente, contro un salario molto cospicuo nei casi in cui si eccella, quello leggendario e metaforico che ha qualcosa di sensato e di insensato, ma sempre di leggendario e idolatrico, da dire all’esistenza tifosa.

 

Fossi napoletano, magari, che bellezza, che spensierata integrazione della romanità, sarei stato all’altare della celebrazione partenopea di Maradona il muchacho o pibe de oro, e avrei scordato anch’io con piacere la radicale differenza tra i due numero 10, lui e Messi. Diego infatti è incomponibile con Leo, non so se per come giocava, questo lo lascio agli esperti, certo per come viveva, per come era, per quanto rappresentava al cospetto delle passioni. Cocaina, lealtà verso gli amici criminali, sesso estremo e variamente figliante, familismo un po’ turpe della Tota (e di mamma, per fortuna, ce n’è una sola), caudillismo e poveraccismo erano il suo stigma; Messi vincitore, con l’aiuto del suo immenso talento e di una imperscrutabile fortuna, senza bisogno della mano de Diós, ha indossato una veste regale donatagli da al Thani l’Emiro, sotto gli occhi esterrefatti dei maradoniani Castro e Che Guevara dal cielo, e ha sollevato una coppa che sa di denaro, di buoni investimenti, di ragazzini legali, i suoi propri, di allenamenti disciplinati, di professionismo antipopulista, di familismo ordinario, banalmente conformista, non di campetto fangoso. 

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L’altro Emiro, Kusturica, faticherebbe a girare anche solo un fotogramma della vita di Leo, lui che ha celebrato vita e morte di Diego in un magnifico, opulento, immoralista documentario biografico del grandissimo eroe nero che le folle hanno adorato e adorano fino a accettare nell’oblio il suo erede così perbene. L’altare di Maradona però resta cristico, un luogo di dolore e di trasfigurazione del male in bene e viceversa, mentre il palco di Messi è laica rappresentazione di una sfilza di successi sportivi, niente di più ovvio e disincantato. La questione non è scegliere l’idolo giusto, gli idoli sono loro a scegliere gli idolatri. La questione è capire, e il calcio in questo aiuta, quanto siano opposti il moralismo di Jean Jacques e il maledettismo romantico così sulfureamente compresenti nei riti del pallone.

 

Anche Pasolini giocava al calcio, “a Pa’… dà du carci ar pallone”, aveva la passione del calcio, ed era un moralista seicentesco intinto in uno strano non eroico furore, indagatore corsaro di mali sociali profondi, il suo compreso. Finalmente, nel centenario della nascita del poeta e cineasta, qualcuno, Marco Lodoli, ha raggiunto con schietta intelligenza, dalle colonne di un organo del moralismo più andante, Repubblica, un nostro vecchio punto di vista: la sinistra moralista è omofoba perché rifiuta di accettare che il poeta all’idroscalo di Ostia quella notte è stato ucciso da un ragazzino di diciassette anni il cui corpo, pederasticamente, amava, e si rifugia nelle teorie dei complotti più scombiccherate, Qanonista ante litteram. Lo slogan principale delle celebrazioni pasoliniane dice che “tutto è santo”, a significare surrettiziamente il perdono del peccato poetico. Sarei d’accordo se dalla santità si escludessero l’ipocrisia e la santificazione di Leo, il professionista che ha scelto l’Emiro sbagliato.

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