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Il Foglio sportivo

Nulla tira più del padel

Moris Gasparri

È uno sport facile da apprendere e da giocare. Apre a uomini e donne e fa rosicare

Nella nazione di tifosi che deve diventare anche nazione di praticanti – questo l’obiettivo delle politiche pubbliche per lo sport avviate dallo stato italiano negli ultimi anni – il padel si sta dunque dimostrando una delle culture del movimento più efficaci, soprattutto nelle fasce d’età mediane della popolazione, perché di facile apprendimento, di facile disponibilità logistica, e infine perché il perdersi nella serietà competitiva del gioco, fondata sulla socializzazione della rosicata della coppia sconfitta che si trasforma in rivincita da ottenere e quindi in catena infinita di partite, è di gran lunga più accattivante delle prescrizioni di sapore medico che si portano appresso le varie camminate veloci, o di sapore estetico-prova costume proprie di tante iscrizioni in palestra (tra l’altro, studi scientifici dimostrano anche i benefici di questa “socializzazione rosicante” per la longevità). Il calcetto, per decenni protagonista nella cultura popolare italiana, oggi sembra quasi un reperto preistorico, oltreché privo di un altro fattore attrattivo del padel: la mescidanza di genere. Per quanti sforzi la nuova pedagogia inclusiva del marketing delle grandi aziende di abbigliamento sportivo possa compiere, è infatti difficile immaginare il calcetto pienamente e paritariamente mescolato, pena il venir meno di uno dei fattori identitari che ne hanno promosso lo sviluppo. Nel padel invece c’è una forte componente femminile e di gioco misto. Ovviamente in questa crescita impetuosa ci sono anche delle contraddizioni: fare sport non fa sempre bene a prescindere, soprattutto se manca una cultura adeguata della prevenzione, e nel potere espansivo del padel va quindi letto anche il potere espansivo delle borsiti e delle epicondiliti. 

Quella fin qui raccontata è una parte della verità, ma non tutta la verità. C’è, nello sviluppo che stiamo analizzando, una dimensione non confinata solamente agli aspetti ricreativi e ginnastici, una forte volontà di pensare questo sport non solo come cultura del movimento, ma anche come espressione agonistica, capace di radunare pubblico attraverso i suoi spettacoli e le sfide tra i suoi campioni. È questo il senso forte del libro Padelmania (Cairo editore) uscito lo scorso settembre, guida molto utile per comprendere gli aspetti appena analizzati e per avere un’infarinatura su regolamenti e gesti tecnici, ma anche e soprattutto per provare a interrogare questa seconda traiettoria. Lo hanno scritto Gianluigi Bagnulo e Dario Massara, apprezzate voci del racconto calcistico di Sky Sport che da qualche tempo hanno abbracciato anche quello padelistico, in un connubio non casuale tra le due discipline che fa da sfondo a tanti degli aspetti del boom della pala. 

Uno dei pensieri più profondi mai pensati sulla pluralità degli sport, che serve per esempio per inquadrare le difficoltà di un tifoso italiano di calcio nel comprendere il fascino del cricket per gli indiani, è quello che invita a trattare l’approccio alle varie discipline sulla falsariga dello studio e dell’approfondimento delle lingue: allo choc e allo spaesamento iniziali tipici di chi inizia l’apprendimento di lingue diverse da quella nativa, si accompagna poi, per coloro che non si arrestano alla soglia iniziale, un arricchimento importante, in una logica della varietà, della curiosità e della scoperta. Questo dovrebbe valere anche per la conoscenza sportiva. Quasi sempre però l’opinione comune è dominata da visioni meno sfumate e più semplicistiche. Pensiamo al baseball, prima lingua sportiva degli States, che in Italia può essere trattato da sport ridicolo, noioso, incomprensibile, magari facendo guadagnare simpatia a chi sostiene questa posizione nel dibattito pubblico, e non invece riprovazione o imbarazzo. La lingua del padel inteso come sport spettacolare segue vie simili, in cui l’immagine di "sport per pippe tennistiche", secondo l’ormai nota definizione pietrangeliana, ha forte presa nell’opinione pubblica e si congiunge a una visione più tecnica e sofisticata, che attraverso la categoria di sport derivativo del tennis (come il futsal nei confronti del calcio), relega questa disciplina nell’inferiorità gerarchica
La scommessa degli autori è che non sia così, e infatti nel libro troviamo una lunga e documentatissima galleria “vasariana” di ritratti dei campioni e delle campionesse del circuito professionistico, in un mix di vissuti e spiegazione tecnica dei loro colpi prediletti, a partire dal più forte di tutti, l’argentino Fernando Belasteguín. È anche la scommessa di Luigi Carraro, dal 2018 alla guida della International Padel Federation, che attraverso la creazione del circuito Premier Padel e il relativo matrimonio d’affari con un attore influentissimo come il Qatar Sport Investments guidato da Nasser Al-Khelaïfi sta rivoluzionando la crescita e la professionalizzazione agonistica di questo sport, nel senso prima indicato. Una storia manageriale dal cuore italiano che cerca orizzonti di espansione globali, tentativo non banale. Lo scorso maggio la tappa romana disputata al Foro Italico ha fatto registrare una grande affluenza di pubblico, e alcune scene di entusiasmo viste durante e al termine della finale tra le coppie Lebron/Galan e Di Nenno/Navarro hanno fatto venire alla mente quella frase illuminante di David Foster Wallace in Infinite Jest sulla peculiarità del pubblico sportivo italiano, talmente eccitato da volersi “scopare” i campioni della racchetta (o, in questo caso, della pala). 

L’impressione è di assistere a una fase che ricorda da vicino i momenti embrionali che troviamo raccontati nei lavori storici sull’origine ottocentesca del calcio in Inghilterra o di altri sport, contrasti e conflitti tra sigle compresi. Larga parte della discussione sul futuro agonistico del padel si concentra sul riconoscimento olimpico, che però è un tema ambiguo, perché il vorticare di nuove discipline recentemente introdotte nel programma, e il loro cambiare tra un’edizione e l’altra, contribuisce al momento più a un effetto Giochi senza frontiere che non a una piena legittimazione universale. D’altra parte per ben note ragioni storiche il tennis, che del padel è modello e aggancio logistico, non ha mai avuto bisogno della presenza nell’agone olimpico per affermarsi. 

L’attuale crescita del padel ci consente inoltre di guardare in modo diverso alla globalizzazione sportiva, e in particolare di interrogarci sulla sua regionalizzazione. La galleria dei campioni contenuta in Padelmania è pressoché interamente composta di giocatori argentini e spagnoli, tutti molto appassionati di calcio, molti di loro originari di Siviglia e tifosi del Betis. La stranezza geo-filosofica di questo sport, che, per compressione degli spazi e aspetti di destrezza coordinativa, sarebbe idealmente molto più asiatico, è proprio quella del suo legame ombelicale con l’ispanosfera, dovuta alla sua particolare genesi (anche in questo caso rimandiamo a Padelmania). Qui c’è il vero nodo. Ci si può espandere senza proporre campioni di svariate provenienze geografiche, e senza penetrare il cuore dei due grandi imperi globali? In Cina il padel al momento ha una presenza residuale, mentre negli Stati Uniti subisce la concorrenza schiacciante del pickleball, una sorta di mini-tennis senza le sponde che si sta diffondendo con gli stessi meccanismi dell’espansione padelistica da cui siamo partiti, supporto delle celebrities compreso. Lo scenario più realistico sta nella possibilità di diventare un grande sport regionale, intensamente praticato e seguito solo in alcune aree e paesi (motivo per cui è scorretto parlare di moda sportiva o bolla), come accade su scale diverse al cricket, al badminton, al rugby o al volley, perché la globalizzazione è fatta di strati, e solo a un numero esiguo di sport è concesso lo status della piena globalità.
 

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