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Il calcio giapponese non è solo manga

Furio Zara

Shingo Tamai fu il primo calciatore giapponese a diventare famoso in Europa, in un cartone animato che era calcio-wrestling all’ennesima potenza. Poi sono arrivati i giocatori veri, in carne e ossa

Shingo Tamai è la stella degli “Akakichi no Irebun”, sobriamente detti “Gli undici rosso sangue”: trattasi del primo manga dedicato al calcio sull’onda del clamoroso piazzamento del Giappone (bronzo) ai Giochi di Città del Messico '68. Da noi la serie diventa “Arrivano i Superboys” e va in onda su Italia 1 negli anni Ottanta. Sobborghi di Tokyo, Shingo Tamai è un liceale ribelle, si va avanti tra risse e partite infinite costellate da acrobazie da Circo Togni. È calcio-wrestling all’ennesima potenza: tutto molto manicheo, tutto così avvincente da appassionare per anni i ragazzini italiani, ben prima dell’arrivo di Holly e Benji. Scena-cult: l’allenatore che - per irrobustire i muscoli - fa avanti e indietro con un fuoristrada sulle gambe di tale Ken Santos, un meticcio mezzo giapponese e mezzo brasiliano.

  

È KK l’idolo degli anni 60. Alle Olimpiadi di Città del Messico ’68 segnate dall’iconico pugno guantato di Smith e Carlos e dai salti di Bob Beamon e di Dick Fosbury, l’uno infinito e l’altro rivoluzionario; c’è spazio anche per Kunishige Kamamoto, il bomber che trascina il Giappone fino alla medaglia di bronzo e che vince il titolo di capocannoniere con 7 reti. All’epoca in Giappone il calcio è surclassato dal baseball, non c’è una vera e propria lega, si sfidano le squadre delle università. Kamamoto si laurea in economia e diventa celebre perché nelle sfide contro le grandi squadre del mondo (anche il Cosmos di Pelé) fa un figurone e guadagna la convocazione (primo giapponese in assoluto) nella selezione Resto del Mondo del 1980.

 

Yasuhiko Okudera: il pioniere in Europa. Estate del 1977, il Furukawa va a fare una tournée in Germania. A Colonia, Hennes Weisweiler - un maestro di calcio che ha vinto tre scudetti con il Borussia Moenchengladbach - nota Yasuhiko Okudera. Ha 25 anni, fa l’impiegato nell’azienda elettrica-sponsor della squadra. Tante titubanze prima di accettare, poi la scelta: Okudera è il primo pioniere del calcio giapponese in Europa. In Bundesliga giocherà 9 anni (1977-1986) con Colonia, Hertha Berlino e Werder Brema, con un solidissimo bilancio di 313 presenze ufficiali e 41 gol. Quando torna in patria, viene accolto alla stregua di un eroe.

 

Con Kazu Miura il Giappone sbarca in Serie A. Operazione di merchandising nella stagione 1994-95. Il presidente del Genoa Aldo Spinelli, compra Kazu Miura senza tirar fuori nemmeno una lira. Pagano tutto i giapponesi. La Kenwood tira fuori 2 miliardi di lire. Miura è foraggiato anche da due sponsor personali, Puma e Suntory, una marca di whisky. La Fuji Television acquista in esclusiva i diritti delle partite del Genoa. Il nippo-centravanti resta in Italia un solo anno e segna un solo gol, ma epocale: nel derby contro la Sampdoria (perso però dal Genoa 3-2). Anni dopo scopriremo che Kazu è diventato il Benjamin Button del mondo del pallone. Passa il tempo, ma Miura anziché invecchiare ringiovanisce. A 55 anni è ancora in attività: da qui all’eternità, inseguendo un gol.

 

Nakata: l’icona-pop. Quando Hidetoshi Nakata arriva in Italia - 1998 - non è affatto uno sprovveduto: anzi, porta in dote qualità e personalità. In Serie A gioca 7 anni (1998-2005) con Perugia, Roma (vince lo scudetto con Capello e Totti), Parma, Bologna e Fiorentina. È l’alfiere di un paese che proprio in quegli anni cresce a dismisura sullo scacchiere mondiale. A seguirlo un codazzo di giornalisti con una sola missione: raccontare l'idolo minuto per minuto. Nakata diventa un’icona-pop con le meches e gli interessi cool: gira il mondo con uno zaino e sfila per i marchi più famosi al mondo e intanto - tra un’intervista e l’altra - chiede e si chiede: “Come posso essere utile al mondo?”.

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