AP Photo/Tony Avelar, via LaPresse 

I Golden State Warriors hanno rotto il giocattolo Nba?

Andrea Lamperti

L'altissimo monte ingaggi della franchigia californiana (superiore al salary cap) rappresenta un problema strutturale per la lega di basket americano, che mette in crisi la sua capacità di rappresentare e difendere l’interesse di tutte e 30 le franchigie

La situazione salariale dei Golden State Warriors sta alimentato accesi dibattiti all’interno del mondo Nba. Se già l’anno scorso, concluso con la vittoria del titolo, la franchigia di San Francisco aveva il monte ingaggi più alto della lega, dopo le recenti estensioni di Wiggins e Poole è destinata a raggiungere livelli senza precedenti nello sport americano. Tra dodici mesi, infatti, i libri paga del proprietario Joe Lacob potrebbero scollinare la quota annua di 500 milioni di dollari, tra stipendi degli atleti (220 circa) e cosiddette tasse di lusso.

 

Trattandosi di una dynasty da sei Finals e quattro titoli in otto anni, inevitabilmente la situazione ha spinto diversi analisti e addetti ai lavori a sostenere che l’Nba abbia un problema strutturale, e che la sua capacità di rappresentare e difendere l’interesse di tutte e 30 le franchigie stia manifestando delle debolezze. Ma come si è arrivati a questo, in una lega che considera l’equità delle condizioni competitive, il ricambio ai vertici e l’appianamento delle disuguaglianze economiche come assolute priorità? Allo stato attuale, Golden State spende, vince e incrementa i propri ricavi – a proposito: quelli generati dalle partite casalinghe dei playoff 2022 si aggirano intorno ai 130 milioni – più di chiunque altro: in che modo è riuscita ad eludere le protezioni di un sistema, quello previsto dal salary cap, che impone una soglia massima di spesa uguale per tutte le squadre?

  

È importante premettere, innanzitutto, la non convenzionalità – forse l’irripetibilità – del loro percorso verso una tale condizione di privilegio. La costruzione del nucleo che oggi chiamiamo dinastia è stata agevolata dal timing dei problemi fisici di Stephen Curry a inizio carriera, quando i dubbi sulla sua integrità hanno portato alla firma di un contratto quadriennale a cifre irrisorie rispetto al suo valore in campo. La fortuna, poi, ha baciato gli Warriors nel 2016, nell’estate in cui l’Nba ha alzato di 25 milioni circa la soglia-limite di spesa in contratti; proprio in quei mesi uno dei migliori giocatori in circolazione, Kevin Durant, si stava guardando intorno alla ricerca delle migliori chances di vincere il suo primo titolo. Con Curry ancora all’interno di quel contratto, il general manager Bob Myers ha avuto margine di manovra per proporre a KD di trasferirsi nella Baia e formare una delle squadre più forti degli ultimi decenni. E così è stato.

 

Prima o dopo, però, il contratto team-friendly di Curry era destinato a terminare, insieme a tutti i vantaggi che ne sono derivati. E qui la discussione entra nel vivo: come è riuscita Golden State a dilatare la propria finestra competitiva, e quindi in un certo senso a sottrarsi alle logiche di ciclico ricambio previste dalla lega?

 

Il salary cap dell’Nba è un soft cap, in quanto prevede delle soglie di spesa che, a determinate condizioni, possono essere superate. Grazie ai bird rights, infatti, le franchigie possono andare sopra al tetto salariale per ri-firmare i propri giocatori, ed è stato proprio questo meccanismo a consentire ai californiani – homemade team per eccellenza, avendo cresciuto in casa quasi tutte le proprie stelle – di percorrere una strada diversa rispetto a tutte le altre squadre. Decuplicando la spesa, certo: per ogni dollaro elargito in contratti, in linea teorica ne devono corrispondere 0.22 ad ognuna delle altre 29 franchigie della lega. Senza doversi separare, però, da nessuno dei talenti che hanno portato e riportato le Nba finals al Chase Center.

   

L’ultimo passaggio significativo di questo percorso è nel 2019. Per Golden State, reduce da una dolorosa (letteralmente) sconfitta nelle Finals, è arrivato il momento dei saluti con Durant, il cui contratto ha raggiunto la scadenza. Firmando per una squadra con spazio salariale, KD lascerebbe gli Warriors a mani vuote; invece sceglie Brooklyn, che per poterlo acquisire deve liberarsi di un salario e spedisce D’Angelo Russell in California. Un anno più tardi, poi, con un lungimirante scambio D-Lo verrà convertito in Wiggins e Kuminga. Ed ecco il core attuale, salito quattro mesi fa sul tetto del mondo.

 

Il punto della discussione non è se Golden State si stia muovendo in modo lecito: tutto, ovviamente, è avvenuto nel pieno rispetto delle regole, e quindi non ricade che nel merito di Lacob, Myers e soci; e non sono nemmeno i (buonissimi) motivi per cui la proprietà sia disposta a farsi carico dei disincentivi opposti dal salary cap. Il fulcro della discussione è fino a che punto l’Nba, intesa come insieme di tutte le parti coinvolte nella negoziazione del CBA (contratto di contrattazione collettiva), ritenga questa dinamica vantaggiosa per la crescita del prodotto e per i propri equilibri. Ed eventualmente, con quali strumenti e correttivi potrebbe evitare che il modello-Warriors diventi un punto di riferimento. Ammesso, e non del tutto concesso, che si tratti di un modello replicabile.

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