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l'uomo dietro gli occhialoni fumè

Bruno Bolchi non era solo la prima figurina

Furio Zara

È morto a 82 anni Maciste, soprannome datogli da Gianni Brera. Fu giocatore coriaceo dall'eccellente senso della posizione, capitano dell'Inter, poi allenatore capace di "curare" le squadre. 

Nella memoria collettiva si è scollata la prima figurina dei nostri dolci ricordi. Si è staccata dall’album a 82 anni, portando con sé una vita di palloni calciati e rincorsi con quella gioventù eterna di chi il calcio l’ha giocato e poi insegnato come lui: Bruno Bolchi. Maciste Bolchi. Il soprannome glielo aveva dato Gianni Brera, per la mole di tutto rispetto e la forza bruta. Bolchi è stato la prima figurina della storia della Panini. Una sua foto in bianco e nero con la maglia dell’Inter venne colorata e stampata: l’inizio di tutto consegnava ai bambini del 1961 il volto contadino di un uomo che davanti al flash del fotografo si ritraeva per pudore, posava accigliato senza regalare la consolazione di un sorriso. Erano tempi così, le facce dei calciatori erano le facce composte degli italiani che erano cresciuti sotto le bombe, come Bruno, a Milano.

 

Aveva esordito in Serie A a diciotto anni, con la maglia dell’Inter che onorò per sette stagioni (1956-1963) diventandone capitano a soli vent’anni e vincendo lo scudetto nel 1963, il primo della Grande Inter di Helenio Herrera. Giocava mediano, aveva un fisico possente - un metro e ottanta per ottantacinque chili - e alla limitata dinamicità suppliva con un eccellente senso della posizione. Da calciatore vestì poi le maglie di Verona, Atalanta, Torino per cinque anni (con la vittoria della Coppa Italia nel 1968) per poi chiudere la carriera nella Pro Patria, a trent’anni, come si usava a quei tempi, quando l’anagrafe del calciatore non consentiva altri orizzonti. In quel 1961 che lo vide diventare noto tra i ragazzini che collezionavano le prime figurine da attaccare all’album con la coccoina, Bolchi collezionò anche le sue uniche quattro presenze in Nazionale, debuttando a Roma, in amichevole contro l’Inghilterra e chiudendo subito la sua parentesi azzurra pochi mesi dopo a Torino contro Israele, in una gara di qualificazione al Mondiale di Cile 1962, cui però non partecipò.

  

A 31 anni era già seduto in panchina, ad allenare - in attesa del tesserino che avrebbe preso più avanti - la Pro Patria in Serie C. Esperienza tormentata che peraltro ne forgiò il carattere: venne assunto, licenziato, riassunto, costretto a dare suo malgrado le dimissioni. E tutto nel corso di pochi mesi, tra la contestazione furiosa dei tifosi. Quel che non ti abbatte, ti fortifica, no? Non si spiega altrimenti la sua lunghissima carriera, snodatasi dal 1971 al 2007: 36 anni di panchine frequentate con una serenità d’altri tempi, col mondo visto dietro i suoi celebri occhialoni fumè.

 

L’elenco delle squadre che Bolchi ha allenato è un romanzo nell’Italia della provincia pallonara. Pro Patria, Pistoiese, Unione Valdinievole, Sorrento, Messina, Pistoiese, Novara, Atalanta, Cesena, Bari, Arezzo, Pisa, Reggina, Brescia, Avellino, Lecce, Lucchese, Monza, Genoa, Ternana, Catanzaro, Messina. Sangue e arena, lacrime e sudore, tra andate e ritorni (il Messina lo allenò in tre periodi diversi), confronti a muso duro con i presidenti che mettevano il becco sulle sue scelte - celebri quelli con il padre-padrone del Pisa Romeo Anconetani - ma anche molte piccole/grandi imprese. Nella bacheca di Maciste ci sono quattro promozioni dalla B alla A: con il Bari (con cui fece il doppio salto addirittura partendo dalla C), con il Cesena, con il Lecce e con la Reggina. Per tanti anni della “cura-Bolchi” ne beneficiarono molte squadre: arrivava, aggiustava un paio di ruoli, caricava la squadra, infondeva fiducia lavorando molto sulle dinamiche di spogliatoio e il più era fatto. Era un tipo pratico, Bolchi. Ma sapeva di calcio. Ne riconosceva il profumo, ne sapeva distinguere le sfumature. Il suo periodo migliore è stato il decennio degli anni 80, quando ancora per fare il mestiere ci voleva un po’ di vocazione e l’allenatore era un uomo solo al comando, senza staff, esposto a ogni folata di vento, da cacciare tra gli insulti per il ghiribizzo di un presidente fumantino o da lanciare in aria nelle domeniche di festa, come nelle foto che circolano in queste ore e lo ricordano: a battaglia finita, condottiero felice tra i suoi uomini.

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