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Il Foglio sportivo

Un ponte per la storia del golf

Corrado Beldì

Il 150esimo British Open sull’Old Course di St Andrews dove si gioca da più di 600 anni

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È un  minuscolo ponte di pietra e in questi giorni è di certo il più fotografato al mondo, più di Mostar, più di Verona, è di un basalto grigio che all’alba si fa rosa, un semplice arco romano, ma anche un simbolo senza eguali di archeologia dello sport. Ci sono passati milioni di giocatori, secoli di sfide in un paesaggio insuperabile per chi ama questo gioco, perché non sei un vero golfista se non hai percorso almeno una volta lo Swilken Bridge. Lo vedo da lontano tra le dune verdi di St Andrews e ricorda subito le foto del passato e i campioni che qui hanno lasciato un segno, da Harry Vardon a Severiano Ballesteros, da Peter Thomson a Nick Faldo, la gloria di una vita passata a tirar palline, perché domenica sera, dopo l’ultimo colpo alla 18, solo un giocatore avrà l’onore di diventare il Champion Golfer of the Year.

  

Il Jigger Inn a quest’ora è già pieno e la birra scorre a fiumi. In ogni pub di questo piccolo villaggio scozzese si parla solo di golf e di chi riuscirà ad alzare al cielo la Claret Jug nella 150esima edizione dell’Open Championship. Una ricorrenza catartica che imponeva di tornare a giocare sull’Old Course. Il nome dice tutto, più di Wimbledon, più del Maracanã, più di Montecarlo, questo è il luogo dove il secondo sport più praticato al mondo fu inventato. Qui a St Andrews si gioca a golf da più di seicento anni, tranne che in una breve e intensa pausa quando di Re Giacomo II, tra il 1457 e il 1502, lo proibì in tutta la Scozia. Gli inglesi erano vicini e c’era una terra da difendere ed era bene che tutti si dedicassero al tiro con l’arco, l’arma più letale posseduta da questo popolo. A quei tempi lo Swilken Bridge c’era già e pure i bunker profondissimi che a St Andrews erano rifugi per le pecore, le uniche responsabili di tenere il prato ben rasato.

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Perfetta ma infida come è sempre stato nei links scozzesi, dove la natura non è mai addomesticata, erba alta, avvallamenti, ostacoli e poi vento e salsedine dal mare, la pioggia che in Scozia è quotidiana e poi a St Andrews ci sono strade, muretti, ponti e alla 18 c’è un canale da superare, le case a destra e un fairway dalle inclinazioni illeggibili e in fondo ad osservarti la Home of Golf, la meta del pellegrinaggio più atteso. In una vetrina della vecchia club house c’è la prima edizione delle Rules of Golf, da devoto praticante le sfioro appena, questo libercolo è la pietra nera del golfista e l’edificio la nostra Kaaba, simbolo di un gioco esaltante e spietato, psicologico e crudele come forse nemmeno il pugilato, con l’incognita della natura, del tempo e delle attrezzature.

 

Come in qualunque sport, nell’ultimo secolo c’è stata un’accelerazione, a volte legata alle imprese di alcuni campioni, il mashie di Bobby Jones nel 1926, il putter di Bob Charles nel 1963, il ferro uno di Johnny Miller nel 1976. A quei tempi gli shaft in carbonio non c’erano ancora e nemmeno i sand wedge affilati come quelli odierni. Sono necessari per uscire da certi bunker che possono essere fatali. Bobby Jones nel 1921 ci perse quattro colpi, stracciò lo score e tornò in America. Vinse dopo un lustro, inaugurando una serie di successi americani, Arnold Palmer negli anni Sessanta e Jack Nicklaus nei Settanta sempre in duello con l’amatissimo Tom Watson, scozzese del Missouri,  è stato lui a darci l’ultimo grande sogno nel 2009, vincere l’Open Championship a sessant’anni compiuti. Un’impresa appena sfiorata, come accadde a Old Tom Morris nel 1881.

  

D’altra parte, ogni tiro a St Andrews è una sorpresa a partire dal drive alla 17. Un dogleg verso destra, si gioca tagliando il parcheggio del Old Course Hotel, se vuoi rischiare miri al pelo delle camere al quinto piano, poi c’è un approccio sul green strettissimo, se sbagli c’è una strada e dietro un muro, se la palla ci finisce contro è finita, a meno di giocare di rimbalzo come fece una volta Miguel Angel Jiménez. Una giocata memorabile che non gli bastò per vincere il torneo, come nemmeno il putt di venti metri imbucato da Costantino Rocca all’ultima buca nel 1995. C’è una foto di quel colpo dietro al banco del Jigger Inn. La fisso mentre assaggio una scotch ale in attesa che passi Matt Fitzpatrick. La speranza locale dopo la vittoria allo US Open è lui, qui nessuno tifa per gli americani, certo il quarto improbabile trionfo di Tiger Woods sarebbe un’apoteosi, meglio ancora un successo di Shane Lowry o di Rory McIlroy, perché qui l’affermazione di un britannico e pure di un irlandese è il massimo che può accadere. 

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La speranza che un italiano ce la faccia è alquanto esigua, Guido Migliozzi e Francesco Molinari sono ai nastri di partenza insieme al giovane Filippo Celli, campione europeo dilettanti, promessa del golf italiano. Supererà anche lui lo Swilken Bridge e sarà di certo una grande emozione, come per ogni golfista che pratichi questo gioco. Penso a Camillo Olivetti, un grande amico di famiglia che regalò la prima sacca di bastoni a mia madre per il suo diciottesimo compleanno. Una vita spesa per il golf, cui non rinunciava per nessuna ragione. Mi ammoniva sempre di lavorare meno, “devi passare più tempo sui campi da golf”, aveva sacca e armadietto in sette club sparsi per il globo, da Barlassina a Pebble Beach e anche qui a St Andrews. Avrei voluto raccontargli la mia prima sul campo che tanto amava e invece l’altro giorno ci ha lasciati, a soli 91 anni, poco dopo aver giocato le sue solite diciotto buche. Il mio primo pensiero è per Camillo che ha adorava questo sport oltre ogni limite, come il dovere quotidiano di un gentleman d’altri tempi, in cui nulla è più importante di una partita a golf con gli amici.

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