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Il Foglio sportivo

Il rito collettivo del taekwondo

Diego Guido

Alla scoperta di un’enclave con linguaggi e codici sconosciuti a chi non pratica

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Al di là del grande obelisco mussoliniano che decreta l’ingresso del Foro Italico, c’erano solo vuoto, silenzio e il caldo asfissiante che a giugno possono patire le città senza il mare. Alle due di pomeriggio di un giorno feriale, sul viale che conduce verso la copertura bianca dell’Olimpico, sfilza di tanti gazebo giganti appiccicati l’uno all’altro, c’eravamo io su una vecchia bicicletta a noleggio e due netturbini. Altre figure umane in lontananza sul retro della sede del Coni e dietro ai vetri della biglietteria di Monte Mario, in attesa di vendere a chissà chi i biglietti per il tour dello stadio. Nessuna traccia o indicazione riguardo alla Coppa Italia di taekwondo in programma il giorno stesso e il successivo.

  

La coltre dell’annoiata indifferenza di Roma, che di nulla sembra mai stupirsi figurarsi per un evento di uno sport talmente minore, poteva essere superata solo arrangiandosi in un’ostinata ricerca.

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Le prime apparizioni, dal nulla, si sono rivelate nei pressi degli impianti del tennis. Sulle geometriche porzioni di prato, i primi dobok - il nome coreano del kimono usato nel taekwondo - e piccoli gruppetti di ragazze e ragazzi in ciabatte, divisi per il colore delle loro maglie con i nomi delle selezioni regionali sulla schiena. Blu scuro la Sicilia, verde pisello il Trentino Alto Adige, bianco Liguria e Lombradia, il Veneto amaranto con il leone oro della Serenissima, e poi tutte le altre. Pochi metri prima era del tutto impossibile vederli o sentirli, all’improvviso erano comparsi.

   

Avvicinandosi si capiva che la loro Coppa Italia stava prendendo vita dentro al fascino eterno del Nicola Pietrangeli, un cratere rettangolare che scende verso il campo con dieci file di gradoni di marmo bianco, circondato tutto attorno da statue neoclassiche, bianchissime pure loro.
Era la porta d’accesso al microcosmo del taekwondo italiano, un pullulare di atleti tra gli otto e i venticinque anni, dei loro allenatori, delle loro famiglie. Un’enclave con linguaggi e codici del tutto estranei al di fuori.

Chi si riscaldava tirando ed evitando calci volanti l’uno di fronte all’altro. Chi era lì come arbitro, indossando una camicia bianca a maniche corte e una cravatta bordò che in quel contesto popolato di tenute da turisti, se non addirittura da piscina, li faceva sembrare hostess e stewart tra villeggianti in partenza. Non esistevano - e non esistono per il taekwondo - semplici spettatori. Tutti i presenti, se non erano atleti in gara, erano tecnici o genitori.

“Ma mi lasci un po' in pace?!” - “Guarda che il combattimento ce l’hai tu. Se fai tardi sono cavoli tuoi”. A pochi passi da me un padre e una figlia tredicenne bisticciavano. Il tappeto scenografico era lo stesso delle classiche gite domenicali in famiglia - stuoie e teli mare sui gradoni del Pietrangeli, mogli sdraiate con la testa appoggiata alle gambe dei mariti, padri a scartare gelati per i figli, coccole, rimproveri, acqua fresca portata a un pinscher accaldato - eppure su quel placido substrato divampava qua e là un tifo acceso. Compagni di squadra e famigliari che urlavano esultanze o delusioni verso i combattimenti e cori a squarciagola per sillabare i nomi delle regioni.
Sullo sfondo c’erano una città che venera le sue due squadre di calcio e uno stadio mastodontico che solo un paio di settimane prima si era riempito per una partita che in realtà si giocava a Tirana. C’erano i campi di terra rossa di uno dei tornei di tennis più prestigiosi al mondo. Un contesto che rendeva l’appassionata minoranza ancora più anomala.

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All’ombra di un muro, una donna cullava un neonato. I capelli a caschetto e la divisa dell’Abruzzo, nera con inserti verdi fluo. “Sono un maestro”. Ci parlavamo a voce bassa, per non svegliare il piccolo. “Prima combattevo, poi è arrivato lui”, e lo guarda sonnecchiare. Ha smesso dopo la gravidanza, con l’idea di riprendere presto. Ha preferito portare con se il bambino e non lasciarlo ai nonni. “La mia vita è lui ma anche il taekwondo. Voglio fare il possibile per tenerli assieme”.

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Era uno spaccato d’Italia, anche fonetico. Accenti, dialetti, perché no lingue dato che un’allenatrice della squadra del Trentino urlava consigli in tedesco alla sua atleta che combatteva contro un’avversaria della Sicilia. Maestro e allievo hanno un rapporto quasi fisico, a ogni time out l’uno cede la sedia all’altro, a slacciargli il caschetto per evitare che il caldo diventi insopportabile, a dargli pacche come carezze e carezze come spinte all’anima. Ovunque si contavano decine di borse del ghiaccio e di gente che zoppicava per effetto dei colpi presi.

Nel 2008 i sensori nei caschi e nelle protezioni sull’addome hanno reso tecnologica l’assegnazione dei colpi e dei punti. “Prima si picchiava più forte. Volevi che gli arbitri vedessero bene il colpo”, mi spiega Elia, giovane maestro del Veneto. “Tutto è più oggettivo e meno duro. Resta un’arte marziale, ma la tecnica ora viene prima della foga”.
Osservando i combattimenti e il freestyle - sequenze di mosse senza avversari - si percepisce un grande rigore tecnico e un profondo rispetto per l’ideologia alla base del taekwondo. Una ragazza della Liguria, scendendo dal tatami dopo qualche errore di troppo, aveva comunque eseguito alla perfezione i rituali inchini verso giudici e allenatore prima di correre con gli occhi pieni di lacrime ad accovacciarsi dietro la sedia di una compagna, la testa appoggiata allo schienale di plastica nera e i buffetti dell’amica sui capelli.

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Si respira un amore intimo tra l'individuo e il suo sport. Si sentono i maestri dire a bambine e bambini che non hanno finito le elementari frasi come “Non devi mollare niente”, “Devi essere più precisa”. Stupisce vedere quanto anche i più piccoli siano talmente seri nel fare cose che ti aspetteresti di veder fare a dei grandi.

Davanti al presidente federale, avevano sfilato tutte le delegazioni per la cerimonia di chiusura guidate da giovanissimi portabandiera che tenevano alto il cartello con il nome della loro regione, come chierichetti in testa alle processioni del patrono nei paesini di tutta Italia. Anche qui è questione di fede. Ne serve per dedicarsi a uno sport pieno di contusioni che da noi è per lo più invisibile.

Li ho visti allenarsi, combattere, sgolarsi mentre tutt’attorno il Foro Italico era un cantiere indifferente, con operai al lavoro per allestire il Mondiale di beach volley di lì a pochi giorni dentro al Centrale del tennis. I cartelloni rivolti sul traffico del lungotevere annunciavano già l’evento sulla sabbia, ignorando quello del taekwondo in corso. Ma al popolo in dobok non importa. Non provano nemmeno gelosia per la pervasività culturale del calcio. Vero, dopo gli ori di Molfetta a Londra 2012 e Dell’Aquila a Tokyo 2020 non sono più totalmente dei marziani, eppure cento metri più lontano da lì per il resto della città e del paese sono già svaniti.
 

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