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Le finali Nba del "cattivo" Draymond Green

Andrea Lamperti

Il giocatore dei Golden State Warriors è un vincente: si sta giocando il suo quarto anello contro Boston. È l'ultima espressione di una tradizione di antagonisti di successo: da Garnett ad Artest, da Rodman a Rasheed Wallace

“Se vuoi essere una squadra vincente, devi avere un enforcer”: difficile trovare un modo migliore - e infatti sono sue stesse parole - per riassumere il Draymond-Green-pensiero. È una sintesi perfetta della sua mentalità e di quello che da anni rappresenta per Golden State. Per due motivi.

 

In primis, perché Green è stato ed è un giocatore vincente, parte integrante di una dinastia da sei Finals e tre titoli in otto anni. Messo parzialmente in ombra da Curry, Thompson (e Durant), in campo è stato il “segreto” - mal custodito, si parla di un ex difensore dell'anno e quattro volte All-Star - dei successi nella Baia; fuori dai 28 metri, è il leader dello spogliatoio e un punto di riferimento per l’intera organizzazione.

   

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Il secondo motivo è che pochi nell’Nba di oggi si possono definire con la legittimità di Green degli enforcer, ovvero giocatori abituati a entrare sotto pelle agli avversari (e non solo), a vivere le loro partite tra attriti, provocazioni, trash talking, intimidazioni e atteggiamenti sopra le righe.

 

Draymond Green è un vincente, in un costante ruolo da antagonista, e non sorprende che proprio in questi giorni si stia giocando il suo quarto anello, infiammando la trama delle finali dell'Nba 2022. Sull’1-1, la serie contro i Celtics deve ancora entrare nella sua fase decisiva, ma il dramma non è mancato nei primi 96 minuti, anzi. Dopo aver già rimediato un fallo tecnico e non aver mai, come suo solito, spento la radio, Green nel secondo quarto di gara 2 è stato protagonista di un episodio che ha fatto discutere. Rovinato a terra sopra Jaylen Brown dopo un closeout, non ha fatto molto - per così dire - per sedare gli animi, prolungando oltre il necessario l’appoggio della sua gamba sulla testa di Brown, dandogli una spinta sulla schiena e “cercando di abbassargli i pantaloncini”, a detta proprio di JB.

   

     

Un secondo tecnico avrebbe causato l’espulsione e complicato enormemente i piani di Golden State, sotto pressione dopo la sconfitta casalinga in gara 1. Consultato il monitor e discusso con i colleghi, però, l’arbitro Zach Zarba ha annunciato al pubblico la decisione di non attribuire il tecnico a nessuno dei due giocatori. Una scelta discutibile a termini di regolamento, ma non del tutto sorprendente considerando l’importanza del contesto e il peso che avrebbe avuto un secondo fallo tecnico, almeno secondo l’opinione di Steve Javie, ultra-veterano dei fischietti Nba e attuale rule analyst di Espn. “Hanno tenuto in considerazione questi aspetti”. E anche questo, se fosse vero, rientra nella sfera del discutibile.

  

Per Draymond, comunque, si tratta solo dell’ultima di tante controversie che hanno segnato la sua carriera. Nella memoria collettiva è rimasto il calcio (con l’aggravante della recidività) tra le gambe di Steven Adams. 

   

     

E soprattutto, l’episodio più celebre e contestualmente attuale: il colpo tra le gambe, ancora, rifilato a LeBron James nelle Finals 2016. Quel gesto costò a Green un flagrant foul e, per il raggiungimento del limite di “flagrant points” (soglia cui è pericolosamente vicino anche quest’anno), una gara di squalifica. Agli Warriors, probabilmente, costò il titolo.

     

     

Senza andare lontano, nelle semifinali di Conference di quest’anno ha finito anzitempo Gara 1 contro i Grizzlies per un contatto considerato “non necessario ed eccessivo” - e dunque, da flagrant 2 - con Brandon Clarke.

 

          

“Una decisione dovuta più alla reputazione che alla durezza del fallo”, aveva commentato in quell’ultima occasione. Ed effettivamente, se è vero che a Green viene concessa regolarmente una comunicazione con gli arbitri (verbale e non) molto plateale, è altrettanto vero che nel modo in cui si approccia agli episodi che lo coinvolgono c’è tendenzialmente del pregiudizio. A prescindere da quanto poi si riveli fondato.

 

È la storia degli antagonisti, la storia per esempio di Garnett, Artest, Rodman o Rasheed Wallace. Paralleli, gli ultimi due, in cui si ritrova lo stesso Draymond: “Li ho visti espellere per falli per cui ad altri non sarebbe successo. Si sono guadagnati quella reputazione, come me, ed è motivo d’orgoglio. Non smetterò mai e poi mai di essere Draymond Green.”

  

Domani a Boston lo aspetta un TD Garden quantomai ostile nei suoi confronti. Non sarà una sorpresa, né una novità, per Draymond, ma il previsto ritorno di fiamma dopo aver versato benzina sul fuoco. D’altronde, “se vuoi essere una squadra vincente, devi avere un enforcer”.

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