PUBBLICITÁ

Il Foglio sportivo

Alle origini del dottorcosta

Luca Delli Carri

Le confessioni dell’inventore della clinica mobile nel Motomondiale: "Più delle medicine ha sempre potuto il desiderio dei miei piloti"

PUBBLICITÁ

Chi non li ha visti non può nemmeno immaginare. Con quali occhi i piloti lo guardavano, quando salivano la breve scala in ferro che portava alla Clinica Mobile e gli si paravano davanti, nel cuore un’unica frase: Voglio correre. I 15 metri quadrati dell’ospedale viaggiante del motociclismo erano la plaga dei suoi interessi, il campo di battaglia in cui si scontrava con la medicina ufficiale e i suoi protocolli, il luogo dove esaltava i piloti fino a trasformarli in eroi; e soprattutto, la testimonianza del suo amore per il motociclismo, frutto della devozione che provava per il padre.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Chi non li ha visti non può nemmeno immaginare. Con quali occhi i piloti lo guardavano, quando salivano la breve scala in ferro che portava alla Clinica Mobile e gli si paravano davanti, nel cuore un’unica frase: Voglio correre. I 15 metri quadrati dell’ospedale viaggiante del motociclismo erano la plaga dei suoi interessi, il campo di battaglia in cui si scontrava con la medicina ufficiale e i suoi protocolli, il luogo dove esaltava i piloti fino a trasformarli in eroi; e soprattutto, la testimonianza del suo amore per il motociclismo, frutto della devozione che provava per il padre.

PUBBLICITÁ

 

Claudio Costa ha vissuto alla velocità dei suoi piloti: sempre al massimo. Tipico di chi, per professione, salva la vita alle persone. Pure, per l’intera esistenza, giunta alle 81 primavere, ha lottato con il suo alter ego, il dottorcosta (tutto minuscolo), fenomenale ortopedico che è entrato nella leggenda del motociclismo, che non ha mai avuto figli perché i suoi figli erano i piloti che assisteva quando erano feriti, che vive ancora nella casa dove è nato, in compagnia del fratello Carlo e di una statua del padre a grandezza naturale. Perché tutto nasce da lì, dal genitore: Francesco Costa detto Checco, che proprio cinquant’anni fa dava vita alla più rivoluzionaria gara di moto mai creata in Italia: la 200 Miglia di Imola. I due fratelli Costa ne hanno celebrato la ricorrenza in settimana, al circuito di Imola, invitando tanti dei campioni che hanno scritto la storia della Clinica Mobile: Loris Capirossi, Franco Uncini, Lucio Cecchinello, Graziano Rossi, Carlos Lavado, Randy Mamola. E poi Nadia Gresini con il figlio Lorenzo, Paolo Simoncelli.

 

PUBBLICITÁ

“La 200 Miglia è la gara che ha inventato il motociclismo a colori”, spiega il dottore. “Prima si correva con le tute nere, mio padre obbligò i piloti a indossare una tuta colorata. Oltre a partire con la moto accesa e non più a spinta, che fu un’altra grande novità. È stata la Daytona d’Europa, una gara favolosa, che metteva a confronto gli idoli d’Europa con quelli d’oltre Oceano, come Steve Baker, Johnny Cecotto, Kenny Roberts, Randy Mamola, Eddie Lawson e tanti altri. Non per niente la chiamavano la Corsa dei sogni”.

 

Perché ricordarla?

“Perché solo con il ricordo possiamo respirare il profumo dell’eternità”.

 

PUBBLICITÁ

Questa gara ha anticipato di 15 anni la Superbike, perché consentiva di correre con moto di grossa cilindrata.

PUBBLICITÁ

“Infatti a vincere la prima edizione, nel 1972, fu una Ducati, che più tardi dominò tanti anni in Superbike. Le moto erano più vicine a quelle che i tifosi amavano e potevano guidare. Mio padre era geniale”.

 

PUBBLICITÁ

Dev’essere di famiglia: anche lei, proprio alla 200 Miglia del 1972, rivoluzionò il servizio medico di pista.

“Sì, portando il rianimatore a bordo pista. Era una rivoluzione: non era più il pilota che andava a cercare il soccorso, dopo una sfrenata corsa in ambulanza verso l’ospedale, ma il contrario, era l’ospedale che veniva in pista. Il pilota ferito trovava la carezza amica di una terapia che poteva salvargli la vita. Siamo stati degli angeli che vegliavano sulla salute del pilota. Oggi, ogni volta che un medico si inginocchia su un pilota ferito ai bordi di una pista, fa il gesto che io e i miei compagni rianimatori abbiamo fatto per la prima volta 50 anni fa. È per questo che io non ho un erede: tutti i medici che componi questi gesti, sono eredi miei e dei miei piloti”.

 

La seconda edizione, nel 1973, venne vinta da Jarno Saarinen, solo 35 giorni prima dell’incidente fatale a Monza in cui morì anche Pasolini. Non è con Saarinen che nasce il dottorcosta?

“La mia storia con Jarno è durata un attimo, ma quell’attimo è paragonabile a un secolo di vita. Il 25 marzo si ruppe il ginocchio al Tamburello mentre lottava con Agostini, lo portai in ospedale e gli misi un gesso che avrebbe dovuto portare per due mesi. Prima che potessi dirglielo, Jarno mi chiese: Quando me lo levo? E io, inaugurando una domanda che poi ho ripetuto tantissime volte nella mia vita: Tu quando vorresti toglierlo? Jarno mi rispose: Tra una settimana, per correre a Modena, poi nella 200 Miglia di Daytona e nel Mondiale. Dopo una settimana gli tolsi il gesso, lui vinse a Modena, poi vinse la 200 Miglia di Daytona e la 200 Miglia a Imola, vinse le prime gare del Mondiale. E ogni volta che vinceva, mi diceva: Vedi che hai fatto bene a seguire il mio sogno? Morì a Monza il 20 maggio, assieme a Renzo Pasolini. Quel gesso avrei dovuto toglierglielo il 22 maggio: se avessi aspettato i tempi della medicina, Saarinen sarebbe ancora vivo. Ma lui mi aveva chiesto di farlo correre, perché questo era il suo sogno, e io avevo accettato. Sì, il dottorcosta è nato il giorno in cui ho assecondato il sogno di correre di Jarno”.

 

Il pilota con il quale ha avuto un rapporto simbiotico, con cui ha spinto al limite la sfida alla medicina ufficiale grazie a tempi record di recupero, è stato Mick Doohan, al quale lei ha salvato gamba e vita, consentendogli di diventare cinque volte campione del mondo della classe regina. Cosa ha provato, quando Doohan l’ha portata con sé sul podio per festeggiare la vittoria?

“La mia medicina era ormai sfumata in un’eresia, nel senso che non era più la medicina che condizionava il pilota con la sua cura, ma era il desiderio del pilota che condizionava il mio modo di aiutarlo. Salire sul podio con Mick è stato come salire sul podio del mondo. È stata la ricompensa a tutti i dubbi, tutte le paure che avevo avuto fino a quel momento, partendo proprio da Jarno”.

 

Una delle sue intuizioni, nate osservando i piloti, è che c’è un eroe dentro ognuno di noi, siamo noi che non lo sappiamo fare emergere.

“Ciò che i piloti mi hanno insegnato è che dentro di loro c’è uno scrigno magico che custodisce risorse miracolose e infinite, che quando tutto crolla e sembra non ci siano vie di scampo sanno fare risorgere l’essere umano dalle ferite e dalle avversità. Questo patrimonio ce l’ha tutta l’umanità e ci è stato donato quando siamo usciti dalle porte del paradiso”.

 

Qual è stato il giorno più felice della sua vita?

“Quello in cui, per strada, dopo un incidente, ho trovato un ragazzo molto giovane disteso vicino alla sua moto, con un lenzuolo che lo ricopriva perché lo avevano considerato morto: ho tolto il lenzuolo e gli ho ridato la vita”.

 

Che ruolo ha avuto suo padre nella sua storia?

“Mio padre era il padrone della mia vita perché era il padrone della mente. Mi ha condizionato in tante cose: diventare medico, poi medico dei piloti. Mi ha fatto amare il motociclismo come Ulisse quando rinunciò all’amore della Ninfa Calipso per quello mortale di Penelope”.

 

Ma che cos’è l’amore?

“Capire cosa provano gli altri: il loro desiderio, la loro sofferenza”.

 

Suo padre amava i piloti e il motociclismo, ma le proibì di guidare la moto.

“Non solo, anche di fumare. Per fortuna non mi diede altre proibizioni, altrimenti sarei in convento, perché gli ho sempre obbedito”.

 

Ha scritto vari libri, prodotto un docu-film dal titolo “Voglio correre” che narra la sua storia e le avventure della Clinica Mobile. L’ultima è una sceneggiatura sulla vita del dottor Semmelweis, il cosiddetto Salvatore delle madri.

“È una figura affascinante, un genio che ha sconfitto una pandemia e salvato le giovani puerpere dalla febbre che le conduceva alla morte, ma che è stato perseguitato fino a morirne. È una sensazione che ho provato anche io, quando la medicina ufficiale mi ha osteggiato e messo perfino in prigione per quanto stavo facendo con la Clinica Mobile”.

 

Negli ultimi cinquant’anni lei ha vissuto nel dualismo tra Claudio e il dottorcosta. Adesso?
“Adesso devo fare i conti con Claudio”.

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ