Ansa

Verso gli ultimi 90'

Resta solo il Milan. E ci costringerà a riconsiderare le nostre convinzioni

Giuseppe Pastore

I rossoneri battono l'Atalanta, vince anche l'Inter. Alla squadra di Pioli manca solo un punto per lo scudetto, per rovesciare le valutazioni e le periodiche lamentele sul mercato, le polemiche arbitrali, quelle sui giovani mal impiegati e sulle punte che non segnano

Resta solo il Milan. Non perché abbia già vinto – per quanto pareggiare domenica pomeriggio nella fornace di Reggio Emilia che ribollirà di rossonero al 90 per cento non sembra impresa troppo ardua. Non perché l'Inter abbia mollato, nonostante anche stavolta abbia dovuto ridursi quasi fino al 90' per chiudere la partita di Cagliari contro una squadra enormemente inferiore, e inoltre attanagliata dall'incubo reale della serie B. Non per i festeggiamenti forse eccessivi alla fine di Milan-Atalanta (c'è ancora un punto da conquistare), per quanto comprensibili quantomeno come forma di gratitudine verso un pubblico che è arrivato in città da tutte le parti d'Italia per stringersi attorno, sopra e sotto alla sua squadra, reazione terapeutica a dieci anni terribili. La solitudine del Milan, a tratti magnifica, si specchia nella splendida solitudine del coast to coast di Theo Hernandez: una solitudine arrogante, prepotente, per nulla intimorita dal “miedo escenico” di San Siro che per esempio ieri ha appesantito il fiato di Calabria e Tonali, una solitudine desiderata e cercata. La solitudine di chi è speciale.

 

Abbiamo scritto più volte che il Milan si sta dimostrando la squadra migliore del campionato pur non essendo la più forte – anzi, proprio per questo. Le manca un punto per dare sostanza alla forma impeccabile delle sue ultime cinque partite, tutte vinte, senza mai vacillare di fronte ai tanti segnali di pericolo che spingevano i bookmaker a darlo sfavorito ancora il giorno dopo Bologna-Inter, a quattro giornate dalla fine. La gara con l'Atalanta è stata logica e prevedibile come se fosse un turno infrasettimanale di dicembre, come se non fosse la partita più importante degli ultimi dieci anni di una maglia gloriosa e pesante da vestire: primo tempo di studio come ci si attendeva, con l'Atalanta – che nel recentissimo passato aveva banchettato a San Siro spesso e volentieri – costretta a snaturarsi e lasciare in attacco giusto un paio di sentinelle per non prestare il fianco alle micidiali sgasate di Theo e Leao.

 

Quando è calata, quando il proverbiale episodio (in questo caso Orsato) le ha voltato le spalle, il Milan l'ha punita con un cinismo insospettabile per un gruppo che senza Ibrahimovic ha un'età media di meno di ventisei anni: negli ultimi vent'anni lo scudetto non è mai andato a una squadra così giovane. Nelle ultime dieci partite il Milan ha subito solo due reti, sempre sullo 0-0: vuol dire che quando è andato in vantaggio – ed è successo otto volte su dieci – si è costruito sempre più convintamente la sicurezza di aver già vinto la partita, e basta vedere le prestazioni “in erezione agonistica” (cit. Gianni Brera) di Kalulu, Tomori e Maignan per averne una dimostrazione plastica.

 

Nelle ultime quattro partite, il Milan è passato dai tre miseri punti all'intervallo contro Lazio, Fiorentina, Verona e Atalanta al bottino pieno di dodici punti al fischio finale: è una squadra che sa aspettare e non va in ansia, anche perché assistita da una condizione fisica invidiabile che in questo primo torrido week-end estivo ha fatto la differenza anche contro l'Atalanta. E poi ha i nervi a posto: Tomori e Kalulu giocano da tre partite con la spada di Damocle della diffida, ma riescono ad arrivare al 90' quasi senza commettere fallo nonostante l'ossessiva ricerca dell'anticipo e un incessante impeto agonistico anche contro i Muriel e gli Zapata.

 

Resta solo il Milan, una squadra serissima che – se racimolerà l'ultimo punto che le manca – ci costringerà a riconsiderare le nostre periodiche lamentele sui mercati deludenti di questa o quella squadra, a dare meno peso alle ovvietà giornalistiche sulle punte che non segnano o i trequartisti che latitano, a infischiarcene delle polemiche arbitrali a tutti i costi, dal momento che il Milan, la prima in classifica, è anche la squadra di serie A che non riceve un rigore a favore da più giornate (l'ultimo, fallito da Theo Hernandez, risale al famigerato Milan-Spezia dello scorso 17 gennaio). A fregarcene dei curriculum, dal momento che il palmares su Wikipedia di Stefano Pioli è fermo da tempo immemore a quell'unico campionato Allievi vinto col Bologna nel 2001 e non può vantare nemmeno lo straccio di una promozione in serie A. Si può essere a un punto dallo scudetto con tutti questi controsensi, e meritarlo pienamente.

 

Ora, dopo aver scollinato i mega-tabù Orsato e Atalanta, come sempre succede nel colossale romanzo del Milan la trasferta di Reggio Emilia si sovrapporrà alla storia recente e passata: in quelle lande è nato Carletto Ancelotti, lì Pioli ricevette la bella notizia di un insperato rinnovo del contratto a luglio 2020, lì il suo Milan s'inventò il gol più veloce della storia della serie A firmato da Rafael Leao in 6 secondi e 76 centesimi il 20 dicembre 2020. Domenica prossima incontrerà una squadra antipatica a molti e tifata quasi da nessuno, portata in alto da un milanistone di ferro come il compianto Giorgio Squinzi il quale, dice la leggenda, era presente per tifare il Diavolo persino al Marakana di Belgrado quando il Milan di Sacchi fu salvato dalla nebbia, trasformata nel frattempo in un supermercato aperto 24 ore al giorno i cui pezzi migliori giocano con l'etichetta del prezzo attaccata alla maglietta. Più di altre, il Sassuolo è la franchigia simbolo di un decennio sciagurato che il Milan è a novanta minuti dal seppellire.

Di più su questi argomenti: