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Il Foglio sportivo

Quanto ci mancano Del Piero e Inzaghi

Fulvio Paglialunga

Era il 13 maggio 2012 quando il fantasista e il centravanti giocavano l’ultima partita in Serie A. A dieci anni dall’addio tornano improvvisamente attuali

È successo tutto quel 13 maggio, dieci anni fa, ultima domenica di un campionato che la Juventus vince (il primo di nove di fila) da imbattuta, togliendo lo scudetto al Milan, partito da detentore e arrivato secondo.

Quel giorno lunghissimo comincia nel secondo tempo di Juve-Atalanta. Dopo dodici minuti c’è Pepe a bordo campo e la lavagnetta che si alza: Del Piero, che ha pure segnato, deve lasciare il campo, sta lasciando la Juve, sta lasciando il calcio italiano. Nessuno sembra credere che stia accadendo davvero: corrono gli avversari e i compagni, per abbracciarlo, omaggiarlo, ringraziarlo e lui si ferma in mezzo al campo, sorride al boato di uno stadio che lo invoca, alza le braccia timidamente, abbozza un inchino, va via. Fosse per lui, abituato alla sobrietà anche dinanzi a quanto di eccezionale è riuscito a realizzare con un pallone, finirebbe così. E non c’è niente di organizzato, dicono che ad Andrea Agnelli non piaccia per niente la sua popolarità. Alex arriva in panchina, guarda i compagni e tutto quello che riesce a dire è “che bello”.

 

Però lo chiamano, è un frastuono commosso di gente che lo invoca. Del Piero si alza, saluta. Lo invocano più forte, si alza e saluta ancora. Le telecamere inquadrano gente che urla che “c'è solo un capitano” e piange. Del Piero ha messo la giacca della tuta e sente addosso qualcosa di mai provato. Perché è stato amato, ma così è difficile resistere. Il protocollo non c'entra più, l'amore ha un cerimoniale irrazionale: allora torna a bordo campo e comincia il suo giro timido. Guarda i tifosi, raccoglie sciarpe e lacrime, passa sotto ogni settore. Piano, per sentire tutto. “Che bello”, aveva detto. E non aveva ancora visto niente.

 

Quando Del Piero torna in panchina, e ha salutato uno per uno tutti i suoi tifosi, è il ventisettesimo del secondo tempo. Da cinque minuti, a San Siro, è entrato in campo Pippo Inzaghi. Il Milan gioca, alla stessa ora, contro il Novara, Pippo prende il posto di Cassano e già sa a cosa va incontro: è la sua ultima partita e la gente lo accompagna in campo urlando il suo nome, cantando “Pippo Inzaghi segna per noi”, come ogni volta, per trecento volte tonde, che è sceso in campo per il Milan e perché Pippo quello sa fare, segnare. E quello fa, quindici minuti dopo essere entrato: scappa sul filo del fuorigioco, accompagna il pallone con il petto senza nemmeno vedere dove si trova la porta, perché tanto lui lo sa dove si trova, e segna, quasi di spalle. Pippo, stavolta, non esulta con la solita corsa da invasato; salta su un compagno e poi quasi non regge la tempesta interna. Piange, abbraccia tutti con gli occhi chiusi, si inginocchia piano, bacia la maglia e si alza sfiancato.

 

Poi la partita finisce e c'è uno stadio da ringraziare, e che ringrazia, il nipote Tommaso da tenere per mano. E c'è Galliani, che gli mette una mano sulla spalla e lo porta fino a centrocampo. Inzaghi prova senza riuscirci a non piangere e allora tiene la testa bassa, ma poi deve alzarla perché dalla curva si srotola una maglia numero 9 gigante con il nome: Pippo. “È qualcosa di magico”, dice mentre fa fatica a uscire dal campo perché è proprio l'ultima volta.

Del Piero (che gioca ancora un po' in Australia e India) e Inzaghi (che ci penserà ancora qualche settimana, per poi confermare l'addio e cominciare da allenatore) si congedano dalla Serie A nello stesso giorno. Quel giorno è l'ultimo anche per Gattuso, Nesta e Zambrotta: cinque campioni del mondo del 2006 contemporaneamente. Ma Del Piero e Inzaghi sembrano la stessa storia. Perché sono stati l'eleganza e la gioia che serve per spiegare che il calcio è un gioco molto serio, ma un gioco. Un cartone animato per adulti, per dirla alla Soriano, in cui gli eroi possono essere ragazzi normali, e lasciare la firma per sempre.

Esiste, infatti, il “gol alla Del Piero”: un tiro a giro dal vertice sinistro dell'area che finisce sul lato più lontano, all'incrocio, dove nessuno può arrivare. Raccontato così da Gianni Mura: “Con la palla che gira perfettamente tagliata verso il palo lontano e la mano sinistra del portiere che non ci arriva. (…) Mi piace pensare che il gol di Del Piero non serva solo a lui o alla Juve (…) ma a una categoria di giocatori alla Del Piero: quelli che il nostro calcio sta emarginando con una fretta eccessiva”. Ed esiste anche il “gol alla Inzaghi”, da rapace, apparentemente casuale, con quell'andatura caracollante e il dubbio eterno, se era proprio un centimetro indietro rispetto al difensore o se era un millimetro avanti, da far dire ad Alex Ferguson: “Quel giovanotto dev'essere nato in fuorigioco”. Il gol alla Inzaghi è quello che segna chi sa prima degli altri dove va a finire il pallone per ribattere nel momento giusto, con qualunque parte del corpo.

 

Hanno giocato per quattro anni insieme e non sempre sono andati d'accordo, ma erano belli da vedere perché sembravano gracili e invece erano un'armata. Hanno legato il nome alla maglia. Del Piero, con una classe addirittura maggiore a quella che mostrava in campo, ha chiesto che non venisse ritirata la 10: “La maglia numero 10 della Juve deve essere indossata, non ritirata. È bello che i bambini possano sognare di indossarla un giorno”. Inzaghi, invece, si è sfilato la numero 9 e nessuno, di quelli che hanno ereditato la maglia di Superpippo, ha più raggiunto la doppia cifra di gol in campionato. Una sorta di maledizione, più probabilmente un omaggio del dio del pallone.

Del Piero è tornato allo Stadium un mese fa, dopo dieci anni, e tutti, dopo l’ovazione, lo hanno immaginato ai vertici della società (ma Agnelli non sembra aver cambiato idea, per quel discorso della popolarità scomoda). Inzaghi ora vede Giroud, numero 9 rossonero, soltanto a un gol dal decimo, dalla fine della maledizione, proprio mentre il Milan sta per tornare allo scudetto. Tornano sempre attuali, anche se hanno smesso dieci anni fa e da allora ci sentiamo più soli.
 

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