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parte la corsa rosa

Pedalare in pace al Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Andrii Ponomar e Pavel Sivakov, storie di un ciclismo senza frontiere, in tempi di guerra

Un anno fa, di questi tempi, Andrij Ponomar correva per l’Androni giocattoli ed era il più giovane corridore al via del Giro d’Italia e null’altro. Aveva 18 anni e 245 giorni e quando lo intervistavano aveva gli occhi timidi e la voce incerta di chi alle telecamere e alla notorietà, per quanto minima, non ci pensava e forse la desiderava nemmeno. Trecentosessantatré giorni dopo, sempre al Giro, Andrij Ponomar sarà ancora il più giovane corridore in corsa, le telecamere però non lo cercheranno più per questo motivo, ma per la maglia che indosserà, che è sempre quella della banda di Gianni Savio – ora Drone Hopper-Androni giocattoli –, ma sarà “coperta” dal giallo e dall’azzurro su sfondo bianco, i colori dell’Ucraina. Andrij Ponomar è il campione nazionale ucraino, lo scorso 20 giugno aveva staccato tutti gli avversari di oltre cinque minuti. Una vita fa. A Chernihiv, la sua città natale, si combatte, sua mamma e sua sorella sono riuscite a scappare dopo aver passato una settimana in un bunker. Suo padre è invece ancora al fronte.

 

Quando la Russia ha invaso l’Ucraina Andrij era in Galizia, stava correndo la Gran Camiño. E’ durato in corsa due giorni, poi ha chiesto di staccare. Per una ventina di giorni è stato lontano da tutto, ha continuato a pedalare, ad allenarsi, ma senza nessuno attorno. La bicicletta, in solitudine, ha un effetto tranquillizzante, curativo. Andrij è tornato in gruppo a inizio aprile, al Circuit Cycliste Sarthe. Si è limitato a dire che è tutto molto complicato, che lui è un ciclista ed è di biciclette che al massimo deve parlare. In una società che si parla addosso di ogni cosa, il ciclismo dimostra ancora una volta di essere vecchio stile. D’altra parte a spingere sui pedali si impara presto che, quando si corre, parlare a volte non serve, basta un’occhiata, un cenno e si è detto tutto il necessario.

 

Anche Pavel Sivakov non è un uomo dai lunghi discorsi, almeno non in pubblico. Nella lista di partenza del Giro, nelle scritte in sovrimpressione in tv, accanto al suo nome ci sarà una bandierina francese e non più quella che eravamo abituati a vedere, quella della Russia. Aveva tenuto la nazionalità russa perché suo padre – Aleksej Sivakov, corridore professionista a cavallo tra gli anni Novanta e Duemila – veniva da lì, anche se è nato in Italia e ha vissuto in Francia. A inizio della guerra ha anticipato quello che aveva già intenzione di fare, prendere la nazionalità francese. “Volevo farlo da tempo e avevo fatto domanda all'Uci ma, visto quello che sta succedendo in Ucraina in questo momento, ho accelerato le cose”, ha detto a marzo, aggiungendo di essere totalmente contrario alla guerra e di sentirsi vicino al popolo ucraino.

  

Nel 2017, poche settimane dopo aver vinto il Giro d’Italia dilettanti, Pavel Sivakov aveva detto di sentirsi a disagio quando gli chiedevano di dove fosse, che si sentiva europeo, ben più che russo o francese o italiano. Aggiunse che non è qualcosa che diceva tanto per dire, ma che nel ciclismo, soprattutto se non si è nati in uno dei paesi di lunga tradizione ciclistica, tocca muoversi, viaggiare, vivere altrove. E tutto questo ha raggrinzito, in lui e in molti suoi coetanei, il senso di appartenenza a una singola nazione.

 

Il grande sogno di Vincenzo Torriani, il patron del Giro d’Italia dal 1949 al 1993, era di organizzare un grande Giro d’Europa, renderlo un appuntamento fisso. Riuscì a realizzarlo un anno, nel 1954, vinse Primo Volpi. Ci teneva tanto, un po’ per lustro, un po’ perché, disse più volte, le biciclette e il ciclismo, sono ciò che serve per una pace perpetua in Europa. A pedalare non ci si sente di una parte o dell’altra, ci si sente pedalatori e basta.