Il tennista russo Andrej Rublëv (Ansa) 

Il caso

Escludere i russi dagli internazionali è sbagliato, un atleta non è il suo governo

Mauro Berruto

Se non vi sono dubbi sulla necessità di impedire a Mosca di organizzare tornei nel proprio paese e pochi sulla partecipazione delle sue squadre nazionali a tornei internazionali, escludere gli atleti dalle competizioni individuali è un enorme errore  

Un atleta rappresenta se stesso o il paese che gli ha rilasciato il passaporto? E’ ambasciatore della propria nazione? Ne rappresenta il governo, vizi e virtù compresi? Di questi tempi sembrerebbe una domanda marginale, ma la storia ci racconta di conflitti iniziati (o terminati) proprio grazie allo sport
Ryszard Kapuściński ci raccontò la “guerra del football”, il conflitto combattuto nel 1969 fra Honduras ed El Salvador che prese le mosse dagli incontri per la qualificazione ai Mondiali del 1970, mentre la “diplomazia del ping pong” riconciliò Cina e Stati Uniti negli anni ’70 e il Mondiale di rugby in Sudafrica del 1995 diventò per Nelson Mandela uno strumento per ricostruire un paese lacerato dalle divisioni dell’apartheid. 


Se torniamo indietro di duemilacinquecento anni non ci sono dubbi: nel mondo dell’Antica Grecia c’era un legame indissolubile fra i fatti d’armi e gli agoni sportivi. Gli atleti gareggiavano a Olimpia rappresentando la propria pòlis che partecipava a pieno titolo della gloria del successo o della delusione della sconfitta. Non c’è dubbio, insomma, che lo sport abbia contribuito a creare un’ossessione identitaria di cui il mondo ha pagato le conseguenze. 


Oggi è ancora così? Il dibattito si è fatto serrato dopo la decisione del torneo di Wimbledon di escludere i tennisti Russi e Bielorussi. La decisione è complicata, ma se non ho il minimo dubbio sulla necessità di impedire alla Russia di organizzare tornei nel proprio paese (la finale di Champions League a San Pietroburgo o il Mondiale di pallavolo avrebbero rappresentato un formidabile volano economico, proprio grazie a Gazprom) qualche dubbio mi viene pensando alla partecipazione delle squadre nazionali a tornei fuori dai confini russi, ma comprendo la decisione perché escludere una squadra nazionale colpisce leadership politica e opinione pubblica. Non ho dubbi, tuttavia, sul fatto che escludere atleti di sport individuali sia un errore. Anzi, un boomerang. 


Le cose più intelligenti sul tema le hanno dette proprio due atleti: il tennista russo Andrey Rublev (che il 26 febbraio dopo la vittoria a Dubai scrisse “No war please” sulla telecamera, in mondovisione) ha proposto di donare all’Ucraina il prize-money russo, una cifra presumibilmente intorno al milione di sterline, una quantità di denaro che nessuno sport ha donato finora. L’ucraina Elina Svitolina ha invece chiesto che i tennisti russi e bielorussi che intendono partecipare al torneo dichiarino esplicitamente di essere contrari alla guerra e ai regimi dei loro paesi, perché “il loro silenzio sarebbe complicità”. Due proposte che rappresenterebbero una vera e propria offensiva diplomatica di cui lo sport potrebbe essere protagonista. Arrivano da due atleti che rappresentano le parti in causa di questo terribile conflitto e la cosa non mi sorprende: ho avuto l’onore di vivere due volte l’incredibile esperienza del villaggio olimpico e so che quel mondo, grazie allo sport, è possibile.

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