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Il Foglio sportivo

Marotta, il profeta dello slow football

Roberto Perrone 

Fenomenologia dell’uomo che media, smussa gli angoli  e si inventa grandi colpi di mercato

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Perseveranza, umiltà e coraggio sono i miei concetti cardine”. Fenomenologia di Giuseppe Marotta, “amministratore delegato sport”, come recita la gerenza, dell’Inter football Club, la società dove è arrivato a fine 2018 e che, con lui in cabina di regia, è diventata Campione d’Italia per la prima volta dalla tripletta di Mourinho (2010). Soprattutto, alla fine del girone di andata del campionato 2021-2022 si ritrova prima in classifica e negli ottavi di Champions League: a metà dell’opera ha fatto meglio. 
Tutto questo, malgrado la crisi societaria di inizio 2021, con tutti i problemi finanziari e le voci di una cessione da parte dei proprietari cinesi Zhang, di cui si è parlato (e si parla anche in questi giorni) e le partenze dei tre maggiori artefici del titolo numero 19: Antonio Conte (allenatore), Romelu Lukaku (centravanti goleador e trascinatore), Achraf Hakimi (ala, o esterno, da 7 gol). Per la seconda volta in un decennio, Marotta si è ritrovato a gestire il non facile transito di una squadra vincente verso un futuro zeppo di incognite. Per la seconda volta in un decennio ha dovuto sostituire il vincente Antonio Conte (successe nel 2014 alla Juventus) con un altro tecnico e per ora ha avuto ragione.

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Perseveranza, umiltà e coraggio sono i miei concetti cardine”. Fenomenologia di Giuseppe Marotta, “amministratore delegato sport”, come recita la gerenza, dell’Inter football Club, la società dove è arrivato a fine 2018 e che, con lui in cabina di regia, è diventata Campione d’Italia per la prima volta dalla tripletta di Mourinho (2010). Soprattutto, alla fine del girone di andata del campionato 2021-2022 si ritrova prima in classifica e negli ottavi di Champions League: a metà dell’opera ha fatto meglio. 
Tutto questo, malgrado la crisi societaria di inizio 2021, con tutti i problemi finanziari e le voci di una cessione da parte dei proprietari cinesi Zhang, di cui si è parlato (e si parla anche in questi giorni) e le partenze dei tre maggiori artefici del titolo numero 19: Antonio Conte (allenatore), Romelu Lukaku (centravanti goleador e trascinatore), Achraf Hakimi (ala, o esterno, da 7 gol). Per la seconda volta in un decennio, Marotta si è ritrovato a gestire il non facile transito di una squadra vincente verso un futuro zeppo di incognite. Per la seconda volta in un decennio ha dovuto sostituire il vincente Antonio Conte (successe nel 2014 alla Juventus) con un altro tecnico e per ora ha avuto ragione.

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“Questo è diventato un modello da seguire: bisogna avere la forza di cambiare senza paura, dovevamo sopravvivere e fare cassa con i migliori. Così è avvenuto e li abbiamo sostituiti con giocatori importanti senza grossi esborsi e senza indebolire la squadra. Poi c’è stata l’intuizione di Simone Inzaghi, perfetto continuatore di Conte. Un profilo italiano, un allenatore concreto che si è adattato subito al nostro ambiente”. 
Beppe, per gli amici e per chi bazzica il calcio e lo conosce da decenni è della classe di ferro 1957, di marzo (25), il mio stesso anno, il mio stesso mese. Scusate la botta di personalismo, ma nel 2022 festeggeremo, a tavola perché è un intenditore, i quarant’anni della nostra conoscenza. Io ero un giovane giornalista, lui un giovane dirigente che organizzò il raduno arbitrale pre-campionato a Varese nel 1982. L’avete capito, Beppe è della vecchia guardia. E questo è il segreto della sua lunga militanza nel calcio dove tutto si brucia in fretta. Quelli come lui, ormai una rarità, forse è rimasto da solo, preferiscono la lentezza, non per andare piano, no, ma per curare meglio i dettagli. Sono affiliati a un’associazione che non esiste, ma che se esistesse si potrebbe chiamare Slow Football, come la mitica Slow Food del cibo, inventata da Carlin Petrini come alternativa al fast che non può e non sa apprezzare appieno quello che ha sotto mano. Insomma, in un calcio dove domina la frenesia, Beppe Marotta preferisce fare il passo giusto, possibilmente non più lungo della gamba (vedi Ronaldo alla Juventus) e sistemare un pezzo alla volta nel puzzle della squadra (e della vita). È un vecchio democristiano, nell’accezione più alta e positiva del termine (beh, ormai c’è solo questa: negli ultimi trent’anni, chi sa di cosa parlo ha imparato a rimpiangere la vecchia politica e i vecchi politici, visti quella e quelli che li hanno sostituiti) cioè un uomo che allo scontro preferisce la mediazione, alla polemica il ragionamento, all’incancrenirsi di un rapporto la sua ricostruzione. Esempio: fosse dipeso da lui, l’affaire Icardi (2018-2019) non sarebbe finito a schifìo, ma si sarebbe sistemato. Spalletti, però, si mise in mezzo e le cose finirono diversamente.  

Non credo che, nel calcio, esista un dirigente con così tanti anni di servizio. Cominciò al Varese, la sua città, poco più che ragazzino, gironzolando attorno al campo di allenamento, raccogliendo palloni e facendo piccole commissioni. “C’erano i Borghi, ma chi mi ha svezzato è stato Mario Colantuoni che, dopo la Sampdoria, acquistò il Varese” raccontò in un’intervista qualche anno fa, mentre stava lasciando proprio la Samp per la Juve. Nel 1982, già dirigente, sfiorò la promozione in Serie A con il vulcanico Eugenio Fascetti in panchina, che prima del Mondiale ‘82 attaccò Enzo Bearzot e, dopo il trionfo in Spagna, a differenza di (quasi tutti gli) altri non salì sul carro del vincitore, anzi rincarò la dose. “Un personaggio, senza peli sulla lingua, ma un innovatore, anni prima di Sacchi”. Marotta ne ha avuti tanti così, Conte su tutti. A cavallo della tigre.  
Studi al liceo classico, lo stesso di Roberto Maroni e di altre celebrità cittadine, poi Giurisprudenza alla Statale di Milano. Mai laureato per colpa del pallone. Dopo il Varese, giro d’Italia: Monza, Como, Ravenna, Venezia, Atalanta, Sampdoria, Juventus, Inter. A proposito, non molti sanno che rischiò di arrivare a Milano con quarant’anni di anticipo, ma “ero troppo giovane e il presidente Pellegrini preferì Dal Cin”. La sua grande duttilità, eccezionale pregio in un mondo puntuto come quello del calcio, gli ha consentito di vivere accanto a personaggi di grande rilievo ma esplosivi, in campo, in panchina, in ufficio. Ha rivitalizzato Antonio Cassano che ha avuto i suoi anni migliori alla Sampdoria guidata con lui e l’ex sodale Fabio Paratici, ha convissuto con Antonio Conte in due riprese, ha resistito cinque anni accanto a Maurizio Zamparini (a cui facciamo i migliori auguri di ripresa dopo l’intervento d’urgenza), un record. Ecco un altro esempio del metodo Marotta. “Ogni domenica sera esonerava l’allenatore. Va bene, gli dicevo, ma facciamo dopo il giorno di riposo. Martedì non ci pensava più”. Dovremmo parlare di resilienza, altro che di duttilità.

Tra una resilienza e l’altra, ha prodotto molti colpi calcistici. Al Ravenna portò un giovane Bobo Vieri, di Cassano (con Pazzini) alla Sampdoria che arrivò in Champions League abbiamo detto, in tempi recenti le scelte di Andrea Pirlo (“la più produttiva”) e Paul Pogba (“la più significativa”), arrivati alla Juventus a parametro zero dal Milan dal Manchester United. Ecco, in questo secondo caso, c’è stata una sorta di risarcimento: visita guidata nelle Langhe e qualche cassa di pregiato Barolo per sir Alex Ferguson, antico amico. Gli ultimi: Dumfries e la fiducia a Dzeko, malgrado l’età. Però la sua più grande intuizione la ebbe a Venezia, prendendo in prestito dall’Inter Alvaro Recoba nel mercato di gennaio 1999. “Per una strana coincidenza, l’Inter venne a Varese per un’amichevole durante la sosta. Io ero a casa. Il direttore era ancora Sandro Mazzola. Parlai con lui e con il procuratore di Recoba, Paco Casal”. “El Chino” Recoba era amatissimo da Massimo Morati – infatti si diceva che giocasse più nel suo giardino che nell’Inter – meno dagli allenatori che si sono succeduti sulla panchina nerazzurra. Beh, dei dieci anni italiani, niente eguaglia quei cinque mesi a Venezia, 19 presenze, 10 gol. “Fenomenale. Ci ha salvato, avevamo 15 punti, chiudemmo a 42, non credo che un calciatore arrivato nel mercato di gennaio sia mai stato così determinante”. 

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In questi anni alla Juventus è mancato più Marotta che certi giocatori in campo. Al di là del mercato e delle competenze specifiche, alla Continassa sarebbe servito qualcuno che arrotondasse gli angoli, che impedisse la giostra degli allenatori (quattro dal 2019) che sapesse intavolare trattative di pace. Come nell’estate del 2020, quando portò Conte e Zhang in una villa del varesotto, li chiuse lì e li convinse a continuare il rapporto che ha portato l’Inter allo scudetto. Slow football, ma da più di quarant’anni Beppe Marotta arriva in fondo.  
 

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