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Prima di essere Che, Ernesto Guevara era Fuser, il rugbista

Marco Pastonesi

Il nuoto, l'atletica, il golf, il calcio sino alla scelta della palla ovale. Tutta la passione del Che per lo sport. Intanto oggi alle 14 la sua Argentina incontra l’Italia del rugby nello stadio di Monigo, a Treviso

L’allenatore lo squadrò dall’alto in basso, valutò i muscoli apparentemente scarni e flaccidi, poi esibì un sorriso storto e sentenziò: “Al primo placcaggio ti spezzeranno in due”. Ma lui aveva il fuoco negli occhi e la voglia nel cuore, così chiese e ottenne di essere sottoposto a un provino. L’esercizio consisteva nel correre e tuffarsi su un bastone appoggiato tra gli schienali di due sedie e cadere a terra con una capriola. Prese la rincorsa, eseguì tuffo e capriola, poi si sollevò da terra e attese nuove indicazioni. Salta, gli disse l’allenatore. E lui saltò. E avrebbe continuato a farlo fino all’esaurimento se l’allenatore, convinto se non dalla forza dei muscoli, certamente da quella della volontà, lo accolse in squadra. Un posto in squadra (e se non in squadra, in panchina o in tribuna), nel rugby, c’è sempre.

Lo conoscevano come “Pelao” per i capelli tagliati corti, sarebbe stato chiamato “Fuser”, contrazione di Furibondo Serna (Furibondo non ha bisogno di traduzione, Serna era il cognome della madre), all’anagrafe risultava come Ernesto Guevara de la Serna, sarebbe entrato nella storia come il Che. Lo sport era la sua prima, vera, grande passione. Anzi: gli sport.

Innanzitutto il nuoto, per combattere l’asma che lo perseguitava fin da bambino, il suo forte era la farfalla, si cimentò addirittura nella traversata del Rio delle Amazzoni, rischiando grosso per la corrente. Poi il golf, chi lo avrebbe mai detto?, perché vicino a casa c’era un golf club. Anche l’atletica, campionati studenteschi, specialità salto con l’asta. Anche l’alpinismo, scalando al terzo tentativo il vulcano Popo, 5.452 metri di altitudine. Anche il ciclismo, anche gli scacchi, anche la moto (bici, scacchi e moto sono custoditi nella sua casa-museo ad Alta Gracia). Anche il calcio, da miracoloso portiere pararigori. “Il desiderio di giocare gli faceva il solletico al corpo – ha scritto Eduardo Galeano in “Splendori e miserie del gioco del calcio” -. Avrebbe voluto che le partite non finissero mai. Quando scendeva la notte, i funzionari tentavano, invano, di mandarlo via dagli allenamenti. Volevano allontanarlo dal calcio, ma non ci riuscivano, perché era il calcio che si rifiutava di staccarsi da lui”. Finché Fuser non si innamorò del rugby. E il calcio si rassegnò a staccarsi da lui.

Sarà stata la natura fisica e morale del rugby. Sarà stata la diversità, a cominciare dal pallone (ovale) e dal passaggio (solo indietro). Sarà stato il gioco di squadra, o il senso di appartenenza, o la filosofia del sostegno. Sarà stato lo spirito di sacrificio, o la ricerca della fatica. Sarà stato il fascino della strategia, non a caso si dice che il rugby sia una partita di scacchi giocata in velocità. Sarà stata la certezza che il rugby è una scuola di vita, perché costringe a metterci l’anima, ma anche il corpo, perché insegna a rispettare le regole, perché obbliga a dare prima che a ricevere. Nove anni di rugby, dal 1942 al 1951, durante ginnasio, liceo e università, da mediano di mischia, terza linea, centro e ala, l’unico trequarti che indossasse i paraorecchi (una premura riservata allora ai giocatori di mischia), prima nell’Estudiantes di Cordoba, poi nel Club San Isidro, nell’Yporà, nell’Atalaya Polo Club e nel Mandarines di Buenos Aires. La sua storia ovale è raccontata anche in un documentato libro del 2011, “Che Guevara, il rugby”, di vari autori (Sedizioni, 120 pagine, 13,50 euro).

 

Era, quello del futuro Che, un rugby molto semplice, genuino, amatoriale. Si giocava per la gioia di giocare. Quella volta che, per arrivare a 15, fu convinto un lustrascarpe che lavorava alla stazione a unirsi e giocare, ma il lustrascarpe, vista l’aria che tirava in campo, ne uscì quasi subito e si dileguò. Tutte quelle volte che al terzo tempo, invece di bere birra come facevano i suoi compagni, Ernesto prendeva il mate. Quella volta che un tizio domandò perché nella selezione universitaria di Medicina non ci fosse Ernesto, e gli risposero che era “impegnato in una rivoluzione a Panama”. Tutte quelle volte che ogni 15 o 20 minuti Ernesto doveva andare ai bordi del campo, dove l’allenatore o il massaggiatore gli davano un inalatore con un broncodilatatore, lui aspirava profondamente, poi tornava in campo e ricominciava a giocare. E quella volta che Ernesto ebbe un attacco di asma, ma all’improvviso ricevette il pallone, evitò il placcaggio di un avversario, poi calciò, ma proprio in quell’istante gli mancò l’aria, perse i sensi e si risvegliò nel suo letto, il padre che gli diceva che avrebbe dovuto smettere di giocare, la mamma che aggiungeva almeno per un po’, e lui che li bloccò: “Desidero dirvi, a tutti e due, che finirò di praticare sport quando morirò, perché se non lo faccio veramente mi sento morire”.

Quando smise di giocare a rugby, Ernesto Guevara continuò a seguirlo fondando e scrivendo per una rivista di rugby battezzata “Tackle”, placcaggio, e firmando con lo pseudonimo di Chang-Cho (la cinesizzazione di “Chancho” o “la Chancha”, maiale, affibbiatogli per il suo trasandato modo di vestirsi o forse perché, finito l’allenamento, se ne andava in giro senza farsi neanche la doccia). Era il 1951. “Tackle” usciva il sabato, ne furono pubblicati 11 numeri (lo stop per mancanza di fondi), ciascun numero era composto di 16 pagine, la sede ufficiosa si trovava nell’ufficio del padre di Ernesto, i redattori volontari erano una decina, Ernesto/Chang-Cho scrisse sei articoli, fra cronache e commenti. E tra i giocatori citati, accanto a cognomi più comuni come Dominguez, Fernandez e Elizalde, curiosamente figura perfino un Lo Cicero, come il pilone catanese Andrea detto “il Barone”, che in nazionale è arrivato a giocare 103 partite.

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Oggi alle 14 l’Italia del rugby affronta l’Argentina nello stadio di Monigo, a Treviso. Gli Azzurri contro i Pumas. Il mito dei Pumas risale al 1965, quando l’Argentina si trovava in tour in Sud Africa. Un giornalista confuse il giaguaro sudamericano delle Ande, simbolo della Federazione argentina di rugby, con un puma. Da allora, orgogliosamente, si sono (e sono stati) ribattezzati così. Per enormi problemi economici che affliggono non solo la Federazione ma tutto il Paese, questi Pumas sono giocatori che disputano i campionati in Europa. Sabato scorso hanno perso il primo match autunnale contro la Francia 29-20 allo Stade de France di Parigi. Domenica 21 combatteranno contro l’Irlanda all’Aviva Stadium di Dublino. Fuser, il Furibondo Serna, avrebbe trepidato per loro.

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