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facce da euro 2020

Il salto di Aymeric Laporte

Enrico Veronese

Il viaggio al di qua e al di là dei Pirenei del centrale difensivo della Spagna

Il destino appeso a un filo. Aymeric Laporte ha atteso a lungo una telefonata, quella definitiva, dal commissario tecnico francese Didier Deschamps: ma dopo aver militato in tutte le rappresentative giovanili dei Bleus, collezionando 51 presenze e tre gol, non è stato considerato all’altezza di giocarsi il posto con Varane e Kimpembe, Umtiti e Lenglet, Zouma e Upamecano. Così il 27enne di Agen, nella Garonna aquitana tra Bordeaux e Tolosa, nipote di nonno basco, non si è fatto troppi problemi ad accettare la corte di Luis Enrique e della federazione spagnola, che almeno l’interesse nei suoi confronti lo hanno mostrato coi fatti, dopo anni di crescita all’Athletic Bilbao e di esplosione al Manchester City.

“Ho due nazionalità e le sento entrambe come mie”, ha dichiarato: Franza o Spagna purché faccia rotolare la palla, dal momento che “tutti i giocatori vogliono giocare al massimo livello”. Mera convenienza, quindi, nell’epoca delle nazionali fluide: nascita o naturalizzazione genealogica da una parte – vale per i brasiliani azzurri, mai convocati dalla Seleçao – il caso delle migrazioni dall’altra (come per Januzaj, che poteva scegliere tra quattro rappresentative). In mezzo, una sorta di ius soli sportivo, la cittadinanza maturata “sul campo”. 

Pochissimi allenamenti con i compagni, in quel continuo cantiere che è la Spagna di transizione (eppure già semifinalista): nemmeno il dovere di imparare le parole dell’inno, poiché nella versione da stadio la Marcia Reale è solo strumentale. Il primo goal – un perfetto stacco di testa – è arrivato già alla terza partita, nel burro della difesa slovacca. Centrale sinistro con Guardiola, destro ma di piede mancino in Nazionale, pulizia da regista difensivo adatto alla costruzione dal basso, già a 18 anni Laporte figurava essere un fenomeno. 

Era stata un’amichevole interregionale tra due zone considerate irredente a rivelarne le doti: gli osservatori da Bilbao furono costretti a un escamotage per ottemperare alle regole internazionali (nessun under può essere tesserato da una squadra straniera) e preservare la linea tradizionale del club, che fino ad allora ammetteva solo baschi nati in Euskadi. Così lo stopper fu tesserato dalle giovanili del Bayonne, in Francia, ma si allenava con il sodalizio della Liga. Al compimento della maggiore età, l’arruolamento. Come fu per Lizarazu, considerati figli di un unico Paese senza confini certi, dove la cucina da perigordina si fa pirenaica ed è più facile (secondo letteratura) che nascano ciclisti resistenti anziché calciatori provetti.

Se questa sera a Wembley le Furie Rosse dovessero spuntarla, ringrazierebbero anche il paradosso nazionalista per cui il cavallo di Troia dei castigliani reali è tale solo attraverso una provincia repubblicana e storicamente ribelle. Intanto, col passaggio alle semifinali Aymeric Laporte ha già avuto la sua rivincita sulla Francia e su Deschamps, vendicandoli a mezzo Svizzera: “Ho mandato un messaggio al ct ma non mi ha risposto – risponde timido il giocatore – magari ha cambiato numero di telefono. Devo fare quello che penso essere giusto, rispettando tutti. È stato un argomento complicato, ne ho parlato con la mia famiglia e ha compreso. Ciò che mi ha dato la Spagna, lungo tutta la carriera e pure ora, non ha niente a che vedere con la Francia”.

Quella telefonata non è arrivata più. Già cinque anni fa, il presidente della federazione francese Noël le Graët aveva commentato “inimmaginabile” la possibilità che Laporte, irritato dal comportamento di Deschamps, rispondesse alla chiamata del selezionatore spagnolo Lopetegui. In Francia allora si pensava che Didier lo convocasse (senza pressioni federali) proprio per sottrarlo alle lusinghe d’oltre catena: “Avevamo una relazione cordiale, ho provato ad avere un contatto con lui, ma non è stato possibile. Non mi ha preoccupato molto”. Alfine giocare, non importa per quale appartenenza, è l’unica cosa che conta per chi fin da piccolo non vede altro che il pallone.

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