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il foglio sportivo

"È il contrario di uno spettacolo". Il calcio secondo Emanuele Trevi

Un patto che dura per sempre

Fulvio Paglialunga

Il tifo per la Lazio di Trevi, “malato” di calcio. “Niente è più bello della prima volta all’Olimpico”

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Di Emanuele Trevi ce ne sono due. Uno ci è noto: lo scrittore capace di pensieri, oltre che di parole, assai profondi, di pareri spiazzanti e opinioni che non tengono conto della direzione del vento, ma solo della propria autonomia intellettuale. L’altro lo conoscono in pochi, una cerchia di amici ristretta: lo scalmanato tifoso della Lazio, l’appassionato di calcio e di tutto quello che ronza intorno al pallone, anche i fenomeni più strani. Incontro il primo per parlare con il secondo. L’Emanuele Trevi scrittore è nella dozzina del Premio Strega con “Due vite”, un libro che racconta la sua amicizia con Pia Pera e Rocco Carbone – scrittori anche loro, scomparsi troppo presto –, un trattato sentimentale della fratellanza e della condivisione più profonda. L’Emanuele Trevi tifoso è ugualmente emotivo, ma molto meno composto, è allo stesso tempo bambino e adulto. In fondo, è a un giorno vissuto quand’era bambino che deve la sua passione.

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Di Emanuele Trevi ce ne sono due. Uno ci è noto: lo scrittore capace di pensieri, oltre che di parole, assai profondi, di pareri spiazzanti e opinioni che non tengono conto della direzione del vento, ma solo della propria autonomia intellettuale. L’altro lo conoscono in pochi, una cerchia di amici ristretta: lo scalmanato tifoso della Lazio, l’appassionato di calcio e di tutto quello che ronza intorno al pallone, anche i fenomeni più strani. Incontro il primo per parlare con il secondo. L’Emanuele Trevi scrittore è nella dozzina del Premio Strega con “Due vite”, un libro che racconta la sua amicizia con Pia Pera e Rocco Carbone – scrittori anche loro, scomparsi troppo presto –, un trattato sentimentale della fratellanza e della condivisione più profonda. L’Emanuele Trevi tifoso è ugualmente emotivo, ma molto meno composto, è allo stesso tempo bambino e adulto. In fondo, è a un giorno vissuto quand’era bambino che deve la sua passione.

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Cos’è per lei il calcio?

È il contrario di uno spettacolo. Mi sento di dirlo a maggior ragione dopo i giorni che abbiamo vissuto di recente.

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Partiamo forte, vedo. Mi spieghi...

Il calcio non ha il carattere della gratificazione immediata, legata al punteggio, non è una performance continua. Quello accade nelle partite di baseball, nelle quali succede sempre qualcosa, o in quelle di basket, dove si segnano 80 punti a squadra. Il calcio, invece, è come la letteratura: anche le cose che si sbagliano sono significative, anche le cose deludenti possono essere utili.

 

Ai legami tra calcio e letteratura arriviamo fra un po’. Mi sta incuriosendo la tesi del calcio come contrario dello spettacolo...

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 Ci sono 0-0 fiacchissimi che hanno riempito le strade di tifosi urlanti. Invece, ad esempio, le amichevoli non hanno alcun senso, perché se già parliamo di uno sport che non è spettacolo continuo e gli togliamo anche il risultato non resta niente. Non nascerà mai un fenomeno come gli Harlem Globetrotter nel calcio, non è lo sport adatto. Per questo l’idea di calcio della Superlega era oscena: negava la natura del calcio, pensando a una sua messa in scena perfetta, ma le due cose – il calcio e la messa in scena perfetta – non hanno nulla a che vedere tra loro. Anzi, il calcio può avvalersi completamente dell’assenza di performance, quando una squadra si chiude dietro in modo da rendere impossibile il gioco all’altra. Ed è calcio anche quello, non si può snaturare. Penso, ad esempio, alla difese trapattoniane.

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Piano con i totem. Cos’avevano di male le difese trapattoniane?

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Niente, erano bellissime. E Trapattoni era stupendo: vinceva le sue partite 1-0 e quello importava. Non per forza lo spettacolo, ma anche la sua sottrazione. Quella del Trap era un’arte. 

 

Sbagliavano in questo, i fondatori della Superlega?

La cosa assurda è che questi Paperoni hanno buon gioco a dire che tutti gli sport si sono evoluti, ma questo non può avvenire per il calcio. È il regolamento stesso che prevede che elementi non immediatamente godibili siano determinanti. Il fuorigioco, ad esempio, è la negazione alla cosa più attraente che il calcio ha, che è il gol. Basta questo per dire che non si può spettacolarizzare il pallone a tavolino, a meno di romperne le basi.

 

Se continuiamo così non capisco più se questa cosa brutta che è il calcio le piace o no. O le piace solo la sua squadra? 

Devo dire che c’è sempre bisogno di un amo, di un’esca. E il tifo lo è. Detto ciò, il calcio mi piace moltissimo, vedo molto volentieri una semifinale di Champions o altre partite. Ma come seguo la Lazio, la mia squadra, non seguo niente.

 

Quando ha iniziato a tifare Lazio? E perché?

Ho iniziato la prima volta che sono andato allo stadio. Fu quando la Lazio di Maestrelli, Chinaglia, Re Cecconi, vinse 3-1 contro la Juve di Furino, Anastasi, Altafini. E quel giorno mi ha vincolato per sempre alla mia squadra. Era il campionato 73-74, a Roma tutti parlavano della Lazio e io, a dieci anni, ero una damigella pronta a sposarsi. Ma ho dovuto fare ricatti in famiglia perché mio padre, a cui non fregava nulla, mi portasse allo stadio e mi comprasse la bandiera della Lazio. Dicevo che sarei scappato di casa, che ci sarei andato da solo, cose così. È stato uno dei pochi moti di ribellione della mia vita da figlio, ma probabilmente sentivo, nella mia innocenza infantile, che sarebbero passati molti anni prima di vincere un altro scudetto.

 

In effetti poi ne sono passati ventisei per vincere il secondo scudetto, il bambino è diventato adulto senza sapere cosa fossero i grandi successi. Vale la pena tifare per una squadra che fa attendere così tanto? 

Questo non è un pensiero che passa nella testa del tifoso. La gente tifa Manchester, Real o Lazio per lo stesso principio per cui nasce alto o basso. È una cosa che spesso non dipende nemmeno da te. E poi il calcio dà gioie enormi per cose che il resto delle persone non sa. Tifare produce per il tifoso un mondo tutto suo, quindi non importa quello che ne consegue.

 

Tifare per la Lazio vuol dire affrontare i derby romani. Cos’è il derby per lei?

È una partita che comincia ad assorbire la tua mente tempo prima. È una specie di capodanno: tu puoi far finta di fregartene, o anche fregartene del tutto, ma tanto arriva lo stesso. Però non è la partita che mi godo di più.

 

Il tifoso, a dir la verità, non si gode nessuna partita...

Vero, ma nel derby è peggio: vuoi solo vedere la tua squadra in vantaggio. Il pareggio lo prendi in considerazione solo se vedi la malaparata.

 

Se non è un derby allora qual è la partita che non dimenticherà mai?

Non è della Lazio. È Italia-Brasile 3-2, nel Mondiale in Spagna: una partita incredibile, molto più di Italia-Germania 4-3. Mi dispiace spernacchiare un idolo di quasi tutti, ma se due squadre fanno cinque gol nei supplementari vuol dire che ci sono stati molti errori. L’inesperto potrebbe dire che con sette gol è una bella partita, ma chi ama il calcio la sente imperfetta, vede la responsabilità delle difese. In Italia-Brasile, invece, non ci furono errori, anche con cinque gol: ognuno tirò fuori il meglio, durante la gara, nella preparazione. Quella, per me, è stata davvero la partita perfetta.

 

C’è stato un momento in cui ha detto “basta, il calcio non lo seguo più”?

C’è stato un momento di rottura con lo stadio, perché non ho nessuna simpatia, nemmeno folkloristica come capita a una certa borghesia, per i nazisti da curva. Non parlo degli ultrà della Lazio, ma degli ultrà in genere. So che dico una cosa impopolare, ma è più forte di me. Ci sono alcune tifoserie, tipo quella del Livorno e poche altre, quelle “rosse” insomma, che mi piacciono di più. Pur essendo una persona disimpegnata, le ritengo più belle, ma siamo a livelli di riserva indiana. Quand’è così, invece, preferisco vederla a casa con i miei amici, con i quali quando c’è un gol posso gioire avendo una vera condivisione. 

 

Meglio il divano, allora?

No, no. Quando posso mi piace andare allo stadio, ma vado in tribuna. Non mi piace l’insensatezza, l’irrazionalità che vedo in altre zone.

   

Ma come “non mi piace l’irrazionalità”! Non esiste un tifoso razionale...

Certo che no, io allo stadio urlo cose terribili, ma la presenza di organizzazioni col culto della violenza è una cosa che voglio tenere lontana, perché accettano principi che non sono i miei. Penso anche che quella sia gente innocente, ciò che detesto è la borghesia che strizza all’occhio a questa cosa qui.

    

Ma il calcio è anche per gli intellettuali?

La proiezione del calcio è proprio il concetto completo di vita che si svolge in novanta minuti. Quindi sì, ma per l’intellettuale in quanto essere umano, non in quanto intellettuale.

 

Gli esseri umani che amano il calcio, dicevamo prima, si sono divisi da poco sulla Superlega. Chi ama ancora il risultato e chi voleva farsi il proprio circolo elitario, nel calcio che già è elitario di suo. È stato uno scontro di culture?

Io penso che l’idea della Superlega sia nata soprattutto per i conti in rosso delle squadre che volevano crearla. Un tentativo disperato che non aveva senso, soprattutto perché il tipo di competizione che avevano immaginato non può esistere in uno sport che ricava il suo fascino da cose che avrebbero cancellato. Il principio della spettacolarizzazione, come detto. Ma anche molto altro. Si è creato un paradosso che qualsiasi bambino avrebbe notato: la Juve, da poco cacciata dalla Champions League dal Porto, che andava a dire al Porto che non è abbastanza forte per giocare con lei.

 

Il calcio è già ultraindustriale, i fan della Superlega ridono sprezzanti quando gli si dice che “il calcio è del popolo”. In effetti non è il concetto migliore da esprimere, per fare opposizione...

Il calcio non è del popolo, perché il popolo non può comprare Ibrahimovic, Mbappé o Ronaldo, che invece comprano i club che infatti si indebitano. So anche che non è così probabile che una squadra vada in semifinale di Champions League partendo dai preliminari, ma questo è il calcio: l’esistenza di questa possibilità. E Guardiola lo ha spiegato in modo chiaro, quando ha detto che senza la sconfitta e senza l’accessibilità non è calcio. Ha parlato come si parla a chi sta giocando con il trenino elettrico come se fosse un orsacchiotto. Il suo tono era quello: “Avete sbagliato cosa”.

 

Molti grandi scrittori hanno un passato da portiere: Camus, Nabokov. Saba ha dedicato a quel ruolo una delle sue poesie. C’è un legame particolare con questo ruolo?

Non lo so, ma ognuno vede quello che serve a dargli un’idea. La letteratura ha bisogno di oggetti e di un’immagine credibile della vita. “Azzurro Tenebra”, di Arpino, parla del fallimento di un progetto umano, parla di lealtà, mica di un Mondiale. La letteratura è questo.

 

Lei, invece, giocava a calcio?

Come giocano tutti i ragazzini. Ma ero una pippa totale.

 

E ora, quando deve svagarsi, sceglie la letteratura o il calcio? Quando c’è bisogno di uno e quando dell’altro?

Io, a dir la verità, mi sento in colpa perché di calcio ne ho visto pure troppo. Avessi letto qualche libro in più sarebbe stato meglio. Sono malato, guardo tutto quello che c’è da guardare, anche le tv locali, anche le tv dei romanisti per prenderli in giro. Leggo certe cazzate su internet...

 

Ad esempio?

Con un amico, Massimiliano Governi, uno scrittore, seguiamo le cose più strane sui calciatori. Siamo gente che va su Wikipedia per studiare Bobby Adekanye, una specie di meteora della Lazio. Abbiamo il mito di Ravel Morrison, che pure è passato dalla Lazio, sembrava un talento ma praticamente non ha mai giocato. Il calcio è una cosa enorme, e trovo bellissimo avere degli amici che non si vergognano come me.

 

C’è un libro sul calcio, invece, che trova bellissimo e che tutti dovrebbero leggere?

“Il calciatore”, proprio di Massimiliano Governi. Perché prende una cosa vera, un rapporto tra un calciatore che vuole giocare e l’allenatore che lo esclude, e scrive una storia lancinante. E poi “La partita” di Piero Trellini, proprio su Italia-Brasile dell’82 di cui parlavo prima. Libri diversissimi, uno poetico, l’altro storico. Entrambi immancabili.

 

Perché lei invece non ne ha mai scritto uno?

Non ho trovato nel calcio qualcosa che rappresentasse altre cose. Non sono mai riuscito a passare dall’argomento apparente all’argomento reale. Non era, ecco, un buon trampolino.

 

Dovessi individuare due parole chiave del suo ultimo libro, “Due Vite”, direi che sono “amicizia” e “memoria”. Dovesse declinarle nel suo rapporto con il calcio, a cosa assocerebbe queste parole?

L’amicizia sono i miei amici che vengono da anni a vedere la Lazio a casa mia, per cui cucino. Una comunità di fissati che mi piace molto. La memoria è, appunto, andare con mio padre allo stadio per Lazio-Juve, perché a quel pomeriggio devo tutto. La prima volta che entri all’Olimpico non la dimentichi. Non c’è niente di più bello, se non giocarci, su quel campo.

 

L’amicizia che viene fuori dal libro è un patto fatto per sempre. Qual è il patto per sempre che si può stringere con il calcio?

È difficile farlo, perché è un campo psichico molto fluido. Le cose nel calcio vanno sempre ricontrattate, per restarci legati. L’attaccamento alla tua squadra, invece, è un patto fatto per sempre: è più difficile cambiare squadra che cambiare sesso. Anche statisticamente credo che siano più le persone che hanno cambiato sesso di quelle che hanno scelto un’altra squadra. Infatti la parola transgender esiste, una tipo transsquadra, no.

 

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