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L'economia non può condannare a morte il calcio popolare

Mauro Berruto

Se il vertice della piramide distrugge la base succede come in quelle patologie autoimmuni in cui le cellule aggrediscono il proprio organismo: bisogna trovare una cura, altrimenti si muore

Le dichiarazioni di guerra sono state consegnate dai rispettivi ambasciatori.  Gli eserciti sono stati schierati e le dichiarazioni hanno alzato ancora il livello della tensione. La seconda guerra del football è alle porte (seconda, perché la prima fu quella fra Honduras e Salvador, raccontata da Ryszard Kapuścinski in un suo libro che si intitola, guarda un po’: La prima guerra del football e altre guerre di poveri). Il fatto è che, domenica sera, abbiamo assistito a una dichiarazione di guerra dei ricchi, alla distruzione di un modello di sport che ha certamente bisogno di correttivi, ma non in questo modo. Potremmo anche definirla rivoluzione di un ristretto gruppo di club ricchi sì, ma che, con un’unica eccezione, ha una situazione di bilancio abbastanza preoccupante. Il ristoro arriverebbe da JP Morgan con 3,5 miliardi di euro da dividere fra i dodici club fondatori che poi gestirebbero un tesoretto da 350 milioni di euro all’anno per la partecipazione. Bella differenza con gli striminziti 700 milioni, un’unica volta e per tutto il resto del mondo dello sport previsti dal Recovery fund. Valla a spiegare a tutti gli altri sportivi allo stremo da un anno che, senza dubbio, questa operazione è ben costruita dal punto di vista finanziario. C’è sempre un “ma”, infatti. Il “ma”, gigantesco, ha a che fare con il calcio e sulla sua meravigliosa storia popolare. E’ retorica? Viva la retorica, in questo caso, perché l’attuazione di questa dichiarazione di secessione sarebbe la morte del resto del mondo del calcio.

 

Dodici club (si sostiene arriveranno presto a quindici) possono decidere questa condanna a morte sulla base di un principio economico? Il mondo intero del calcio e dello sport è in ginocchio, la soluzione può passare attraverso la prosperità di un piccolo numero di club che detiene la stragrande maggioranza della ricchezza? In un mondo dello sport letteralmente devastato dalla pandemia, questa operazione, proprio ora, suona completamente fuori luogo e come un’operazione da Ancien Régime che aumenterà lo scollamento fra quei quindici milioni di nostri connazionali che hanno a che fare direttamente con lo sport rispetto alla loro percezione del calcio.

 

A chi sostiene che ci sono esempi che dimostrerebbero l’efficacia di questa rivoluzione, rispondo che non si può applicare il modello Nba solo nella parte che piace. Lo si dovrebbe applicare tutto: sistemi di regole e contrappesi che garantiscono competitività, draft, vero fair play finanziario e salary cap, restituzione sui territori, sport nel sistema scolastico e universitario e magari anche tutela della possibilità per gli atleti di esprimersi sulle grandi battaglie per i diritti, proprio come succede nella Nba. E, ancora, come valutare la possibilità delle franchigie? Perché un proprietario, proprio come accade nella Nba, non dovrebbe spostare il club in un’altra città o nazione, per ragioni fiscali, di interessi personali, per cercare un nuovo pubblico o perché non dispone di uno stadio di proprietà? Il calcio è pronto a tutto questo? Lo sport più bello e seguito del pianeta è pronto a un modello come quello descritto da Marco D’Eramo nel suo saggio Dominio, in cui la guerra di classe la fanno e la vincono i ricchi? Se il vertice della piramide distrugge la base succede come in quelle patologie autoimmuni in cui le cellule aggrediscono il proprio organismo: bisogna trovare una cura, altrimenti si muore. Forse questa operazione è una di quelle rotture dove si chiede cento per ottenere dieci, non so. So che una riflessione va fatta, ma non in questo modo. E so che nella riflessione sul cambiamento del modello dello sport più seguito e amato del pianeta oltre a economisti e consulenti di finanza, servirebbero anche sociologi e antropologi.

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