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Setteperuno

L’ex aequo, nello sport, è un privilegio raro

Marco Pastonesi

Per un millimetro Van Aert ha vinto la Amstel Gold Race davanti a Thomas Pidcock dopo oltre cinque ore di corsa e otto minuti di consulto al photofinish. La difficile scelta di determinare un vincitore quando si è pari al traguardo

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Il photofinish che non finiva mai. Otto minuti per decifrare e decriptare i fotogrammi, quindi determinare e dichiarare il vincitore. L’Amstel Gold Race, la più recente classica del nord, è stata conquistata ieri dal belga Wout Van Aert sull’inglese Tom Pidcock per un millimetro. Un millimetro. Niente. Niente dopo 221 chilometri di corsa a tutta birra. Niente dopo cinque ore, tre minuti e ventisette secondi di gara spettacolare. Niente eppure tutto.

  

Siccome a pensare male ci si azzecca quasi sempre, verrebbe la tentazione di supporre che tanta attenzione, tanto scrupolo, tanta ostinazione nel cercare la precisione assoluta dipendesse anche dalla situazione geografica: Van Aert corre per una squadra olandese, la Jumbo-Visma, Pidcock per una inglese, la Ineos. Sarà un caso, o forse lo diventerà, ma a vincere è stata la squadra che giocava in casa.

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Se il giudizio di gara fosse stato affidato a Salomone, re d’Israele, celebre per la sua sapienza e saggezza, che valutava a occhio e giudicava a cuore, la sentenza sarebbe stata di parità. “Il buon nome – sosteneva il successore e figlio del re Davide – vale più di grandi ricchezze, la stima più che l’oro e l’argento”. Primi, Van Aert e Pidcock, o in ordine alfabetico Pidcock e Van Aert, a pari merito.

 

Qualche precedente di salomoniche parità, anche in assenza di Salomone, c’è già stato. A cominciare dal ciclismo. Parigi-Roubaix, 18 aprile 1949: era sempre, forse ancora di più, l’infernale nord del pavè, della foresta, del fango. 217 partenti da Saint-Denis, dove oggi sorge lo Stade du France devoto al rugby. Favoriti l’Imperatore, il belga Rik Van Steenbergen, e il Campionissimo, Fausto Coppi, che quell’anno avrebbe trionfato sia al Giro sia al Tour, la prima doppietta della storia. Poi corsa vera, estenuante, anche tattica, e decimazione fisica, meteorologica, insomma ciclistica. A una trentina di chilometri dall’arrivo Fausto lanciò il fratello minore Serse, il primo a rispondere fu André Mahé, che si portò via Moujica, nato spagnolo come Jesus e naturalizzato francese come Jacques, e i belgi Frans Leenen e Florent Mathieu. Quattro uomini in fuga. Ma prima Mathieu, poi anche Moujica caddero e furono distanziati. Così solo Mahé e Leenen giunsero al velodromo di Roubaix. Qui, però, confusi dalla fatica, disorientati dalla folla, distratti da auto e moto al seguito della corsa, perfino ingannati da un gendarme emozionato, girarono intorno al velodromo cercando invano l’entrata. Pare che un giornalista, in moto, indicò loro un ingresso, ma era quello riservato alla stampa. Così finalmente i due fuggitivi entrarono nel velodromo, ma sbucando dal lato opposto rispetto a quello riservato ai corridori. Poi la volata a due: primo Mahé. Poco dopo sopraggiunsero gli inseguitori. Altra volata: primo Coppi, ma Serse. E qui cominciò il photofinish (che non esisteva) più lungo della storia. Durò quasi sette mesi. La vittoria fu subito attribuita a Mahé, suggellata con un mazzo di fiori. Poi la Bianchi dei fratelli Coppi inoltrò reclamo (Mahé non aveva seguito il percorso ufficiale) e il giudice francese Henri Boudard dichiarò vincitore Serse. La decisione fu comunicata a Mahé mentre faceva la doccia. Una doccia fredda. Però gli organizzatori si dissociarono dalla giuria e decisero di assegnare, se non la vittoria, almeno i premi secondo l’ordine di arrivo. Cinque giorni dopo la Federazione francese ribaltò il risultato e assegnò la vittoria al suo tesserato Mahé. Allora la Federazione italiana fece ricorso e in agosto la Federazione internazionale stabilì che non esistevano vincitori: la corsa era da ritenersi annullata. A questo punto si appellarono (ma quanti gradi di giudizio c’erano?) sia la Federazione francese sia quella italiana. E in novembre il salomonico verdetto definitivo: avevano vinto tutti e due, Mahé e Serse Coppi.

 

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“Ex aequo”, a pari merito. La versione completa: “Ex aequo et bono, in quantum aequius melius”, secondo ciò che è giusto ed equo, perché è meglio che sia più giusto. Ma ci può essere una giustizia più o meno giusta? La questione è filosofica, qui basti sapere che l’ex aequo, nello sport, è un privilegio raro.

 

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Nel canottaggio fece storia la parità, più unica che rara, fra Oxford e Cambridge nella “Boat Race” per eccellenza, sul Tamigi, il 24 marzo 1877 alle 8.27 di mattina: tutti e due gli equipaggi completarono il tracciato in 24 minuti e 8 secondi secondo il giudice John Phelps. Poi seguirono grandi polemiche: c’era solo quel giudice, aveva più di 70 anni, di lui si diceva che fosse cieco da un occhio e si raccontava che avesse bevuto anche un po’. Nella Formula 1 si tramanda il primo gradino del podio condiviso dai ferraristi Ludovico Scarfiotti e Mike Parkes: era il Gran premio di Siracusa, nel 1967, una prova non valida per il Mondiale. Più che Salomone, a decidere per la doppia vittoria fu il Drake, Enzo Ferrari: l’inglese Parkes la meritava per il suo oscuro, prezioso lavoro di collaudatore, e Scarfiotti perché ci voleva un altro italiano primo dopo la recente morte di Lorenzo Bandini. Nel nuoto l’ex aequo premiò le statunitensi Nancy Hogshead e Carrie Steinseifer: erano i 100 stile libero, all’Olimpiade di Los Angeles 1984, e il cronometro al centesimo di secondo – 55”92 - sancì la dorata parità.

  

Il più recente ex aequo ha provocato una figuraccia mondiale. Ai Mondiali, appunto, di sci di Cortina 2021, nel gigante parallelo, prime Marta Bassino e l’austriaca Katharina Liensberger. I due tracciati erano paralleli ma non identici. E il regolamento, che prevedeva un “penalty time” massimo, complicava ancora di più i risultati. Tanto da far infuriare perfino la sportivissima Federica Brignone, danneggiata dall’evidente iniquità: “Parallelo assurdo, gara ingiusta”.

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