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il foglio del weekend

L’Inter, un intrigo cinese

Maurizio Crippa

Squadra in vendita, debiti di Suning (ma nemmeno troppi). Fondi d’investimento alle porte, con prospettive di business. E l’ombra di Bin Salman. Un romanzo nei colori della notte e il sistema calcio che scricchiola

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Chiudere da un giorno all’altro per debiti una squadra di calcio con i colori gialloblu, seppure fresca vincitrice della Chinese Super League, non è poi un disastro epocale. Capitò più o meno uguale ai gialloblu del Parma travolti dal crac Parmalat, per dire. E poi è la Cina. Lo Jiangsu Suning di proprietà della conglomerata della famiglia Zhang ha cessato ufficialmente le attività la settimana scorsa, ma non è l’unica squadra del Celeste impero ad aver subito la mala sorte: ne sono fallite altre, alcune hanno cambiato nome e persino città. Tradizione sportiva e valore del brand in Cina hanno altri significati e differenti economie di scala, e più in generale il football cinese ha smesso di essere un interesse strategico, nella Nuova èra di Xi Jinping. Nel giro di un paio d’anni. A oriente cambia tutto in fretta. Lo Jiangsu Fc non risorgerà come il Parma. 

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Chiudere da un giorno all’altro per debiti una squadra di calcio con i colori gialloblu, seppure fresca vincitrice della Chinese Super League, non è poi un disastro epocale. Capitò più o meno uguale ai gialloblu del Parma travolti dal crac Parmalat, per dire. E poi è la Cina. Lo Jiangsu Suning di proprietà della conglomerata della famiglia Zhang ha cessato ufficialmente le attività la settimana scorsa, ma non è l’unica squadra del Celeste impero ad aver subito la mala sorte: ne sono fallite altre, alcune hanno cambiato nome e persino città. Tradizione sportiva e valore del brand in Cina hanno altri significati e differenti economie di scala, e più in generale il football cinese ha smesso di essere un interesse strategico, nella Nuova èra di Xi Jinping. Nel giro di un paio d’anni. A oriente cambia tutto in fretta. Lo Jiangsu Fc non risorgerà come il Parma. 

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Chiudere da un giorno all’altro una squadra che ha i colori della notte, e un blasone internazionale e una bacheca di trofei, e soprattutto è italiana e gioca alla Scala del calcio, non è esattamente la stessa cosa. Non si può fare un comunicato, staccare le utenze e via. Anche se il padrone è lo stesso, dal giugno 2016: il Suning Holdings Group con sede a Nanchino, che in realtà possiede il 68,55 per cento delle quote, il rimanente è di LionRock Capital, un fondo di Hong Kong. 


Chiudere per debiti lo Jiangsu Suning non . come chiudere un club blasonato, e che gioca a Milano nella Scala del calcio. Ma solo l’ipotesi d. i brividi


 

Da mesi si inseguono le voci sulle difficoltà economiche del club derivanti da quelle, più grosse, del proprietario cinese. Prima lo stop al mercato, poi qualche allarme sui pagamenti degli stipendi (poi saldati) e le conferme da Nanchino della necessità di trovare nuovi soci o addirittura un compratore. E soprattutto le poche parole di disarmante fatalità taoista del capostipite Zhang Jindong: “La famiglia Zhang non intende abbandonare la squadra, ma cercare una nuova proprietà che possa occuparsene e sta cercando nuovi compratori, o quanto meno soci, per rilevare se non tutta almeno una consistente parte del club”. E poco dopo il Capodanno lunare: “Dobbiamo concentrare il nostro campo di battaglia principale, avviare la sottrazione, ridisegnare la linea di battaglia. Chiudere e ridurre le nostre attività irrilevanti”. Irrilevante l’Inter? Che vale un miliardo? La sola idea di un fallimento alla cinese ha gettato nella più cupa angoscia i tifosi (anche se il problema riguarda tutto il sistema calcio nazionale, come vedremo) ma resta secondo gli analisti di finanza applicata al calcio un worst-case scenario a bassa probabilità. Tanto più ora che la squadra ha iniziato a correre, dopo un decennio disputato nel girone del purgatorio. Sarebbe davvero l’impresa definitiva della pazza Inter.

 

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Pur allontanando anche solo l’eventualità che una tragedia accada proprio nell’anno del Toro (Lautaro), il passaggio di mano dell’Internazionale Football Club è lo scenario di cui si occupano da mesi non solo gli appassionati, ma tutta la comunità del business interessato allo sport. Ed è un rompicapo misterioso, innanzitutto per la leggendaria impenetrabilità dei signori di Nanchino. Che non parlano con nessuno, tantomeno con i manager della società a Milano (che sono parecchio nervosi) e comunicano a rilento persino con il loro advisor in Europa, cioè Goldman Sachs, cui è stata affidata la ricerca di eventuali partner. Quello che è sicuro è che il patriarca, pur non essendo sull’orlo del lastrico (la famiglia vale ancora “billions”, dicono gli analisti, e lo stato cinese ha rilevato una quota del gruppo per 1,9 miliardi) si libererebbe del problema subito: a patto di non perderci. Mentre non è difficile immaginare che suo figlio Zhang Kangyang, che però preferisce farsi chiamare Steven, 29 anni e presidente del club, preferirebbe restare almeno fino al termine della stagione: si è appassionato, ama il calcio, a Milano si trova bene. Allora perché questa necessità di vendere e, soprattutto, perché questa drammatizzazione?

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Per la Cina per anni il calcio è stato uno strumento di soft power. Ora non più. Il gruppo di Nanchino ha subito tracolli, e non solo a causa del Covid


 

Per capirci qualcosa bisogna partire dall’inizio. Palla al centro. Tutto inizia con il Covid-19, ma non è colpa dei pipistrelli di Wuhan. L’anno della pandemia ha dato un brutto colpo all’impero Suning, che ha perso oltre il tre per cento di ricavi a causa del lockdown interno e globale. In più, secondo il Financial Times il gruppo deve onorare scadenze di bond per 1,2 miliardi di dollari, dopo aver già ripagato 1,5 miliardi lo scorso anno. Secondo Bloomberg, Zhang Jindong avrebbe subito una riduzione del patrimonio personale per più di 2 miliardi di dollari. In base a un report Deloitte, l’Inter ha invece subito un calo del 20 per cento rispetto al 2019 e ha chiuso il 2020 con una perdita di 102 milioni, in gran parte per mancati introiti. Per chiudere il bilancio serve una cifra tra i 150 e i 200 milioni, anche se quelli per coprire le scadenze urgenti sono stati messi. Non è il solo problema. Risulta che Suning abbia puntato su un accordo strategico con Jack Ma, il creatore di Alibaba, il super ricco del web globalizzato. A dicembre scorso – hanno riportato i media cinesi, ripresi dal Corriere – avrebbe dato in pegno a Taobao, una controllata di Alibaba, il 100 per cento di Suning Holdings Group. Forse, chissà, puntando sul successo della maxi quotazione da 37 miliardi di dollari della fintech Ant Group che Mr. Alibaba stava per lanciare: sarebbe stato un volano finanziario gigantesco. Solo che Jack Ma, per via di quella operazione troppo fuori dalla tutela del Partito, è finito nei guai: gliel’hanno bloccata, lui è persino spirito dalla circolazione per un po’ e quando è riapparso non sembrava più l’uomo che a Davos predicava la necessità della “libertà di pensiero”. Vendere dunque, dismettere le attività non essenziali. 

 

Palla in corner: bisogna cambiare visuale. Nella decisione di Suning di uscire dal business non c’entrano solo i soldi. E’ la Cina che ha deciso di dismettere un settore entrato in crisi e non più strategico. La Chinese Super League è stata per un po’ la Premier League dell’Asia, ma l’investimento non ha retto. Già nel 2019 era stato imposto un salary cap stretto, provocando la fuga delle star internazionali (spesso a fine carriera) attratte da stipendi da nababbi. Squadre (senza tradizioni) hanno lasciato il proprio territorio per motivi di business, aumentando il disamore delle pur enormi platee di supporter. Infine una legge recente ha vietato ai privati di esibire il nome dell’azienda con quello della squadra. In tal modo l’unico interesse economico, la sponsorizzazione, è venuto meno: meglio mollare, come Jiangsu Suning. C’è poi un discorso più generale che riguarda Pechino e il calcio. Per alcuni anni questo sport globale è stato per il governo cinese anche uno strumento di soft power, un’operazione simpatia per la penetrazione in nuovo mercati: anche lo sbarco a Milano di Suning fu letto come il primo passo di una possibile espansione commerciale. Del resto Milano è una porta per l’oriente: già sede di Huawei e di Alibaba per il sud Europa, per non parlare di Pirelli (sponsor storico ma ora in uscita dell’Inter) da anni acquistata da ChemChina. La strategia era iniziata da oltre un decennio, l’Ado Den Haag in Olanda è stata la prima squadra a passare in mani cinesi, nel 2008. Poi il West Bromwich inglese e il Wolverhampton acquistato dal colosso Fosun, e il Southampton. E inoltre la quota del Manchester City posseduta da imprenditori cinesi. In Francia l’Olympique Lione, mentre il Nizza dopo pochi anni è passato in mani egiziane. A parte i club nazionali in crisi e minacciati dalle restrizioni del regime, molte di queste attività non vengono più viste con simpatia da Pechino. Comprese le ingenti sponsorizzazioni sportive di Huawei (Arsenal, Atletico Madrid, Milan, PSG, Galatasaray, Borussia Dortmund per citare alcune delle squadre più famose). Ma anche il business di Suning per i diritti della Premier League, del valore di 630 milioni, è stato chiuso per i mancati pagamenti del gruppo di Nanchino. Il soft power calcistico evidentemente non è più centrale. Il mese scorso è comparsa la notizia che l’ex proprietario cinese dell’Aston Villa  – che l’aveva venduta nel 2019 – ha subìto mesi di detenzione in Cina per malversazioni legate agli investimenti sportivi. Insomma, il calcio non è più un safe business per i miliardari cinesi.

 

Palla al centro, secondo tempo. Dunque vendere, il primo punto è la valutazione. Che per la famiglia Zhang è di un miliardo di euro. Secondo gli analisti il prezzo è giusto. Dati alla mano, Suning per l’Inter ha speso finora circa 640 milioni di euro tra acquisizione del club, acquisto di calciatori e copertura dei bilanci. In più ci sono i due bond per 375 milioni in scadenza al 2022. Sui debiti, c’è un dettaglio che va però considerato. Suning in questi anni ha immesso soldi nella società  con la formula del finanziamento soci, che costituiscono una voce passiva per la società nei confronti dei soci (circa 350 milioni, una parte dei quali però convertiti in capitale, mentre su una parte l’Inter ha pagato interessi) diversamente da quanto facevano i patron di una volta: Massimo Moratti ha sempre ripianato i conti di tasca sua (sua, non della Saras). Se per ipotesi estrema dovessero essere restituiti, il club rischierebbe la bancarotta. E’ un dettaglio che fa pensare anche al fatto che un certo spin drammatizzante dei media sia in realtà alimentato dai timori di Viale della Liberazione, la nuova ultramoderna sede del club. Va anche detto che certi allarmi sono ingiustificati: le scadenze di rate attuali risultano coperte, e per rifinanziare i bond c’è tempo fino a dicembre 2022.


Bc Partners resta al momento l’unico compratore ufficiale. Tra strategia di “valorizzazione” e l’ambizione di acquisire un top brand


 

Rinvio dal fondo o costruzione dal basso: i due schemi di Suning per uscire dal calcio italiano. Il primo è il compratore secco. Che è stato individuato e per ora è l’unico, il resto sono rumors. E’ Bc Partners, fondo di private equity britannico tra i più cospicui, che ha già concluso d tempo la due diligence. Solo che non vuole spendere più di 700-750 milioni (compreso l’accollo dei debiti). Perché punta – esattamente come il fondo Elliott che possiede il Milan – a rivendere nel giro di pochi anni ottenendo un adeguato margine: è il suo mestiere. E’ vero che il boss di origine greca di Bc Partners, Nikos Stathopoulos, ha detto  “stiamo approcciando il mondo dello sport da un punto di vista dei contenuti. Lo sport è una grande fonte di contenuti di alto valore”, per cui “ stiamo valutando di investire nello sport, che sia una lega o la proprietà di un club”. Ma Bc Partners è noto per uno stile aggressivo al business (fondi locusta si dice in gergo) ha gli interessi degli investitori da tutelare. E quando spiega che “i fondi porterebbero capitale e potenzialmente anche più professionalità, più disciplina e più regole” è chiaro il messaggio (anche per i tifosi, ovviamente). Comprare a 750-800 milioni, spiegano fonti vicine al dossier, sarebbe un buon affare, nell’ottica di aumentare i ricavi i pochi anni e rivendere tra cinque a un miliardo e due, tre. E quella cifra, per la famiglia Zhang non sarebbe un disastro: ma vogliono il loro miliardo, vogliono uscirne bene.

 

Domandina banale: ma perché un fondo simile dovrebbe investire nel calcio, un business che secondo lo studio di Deloitte Football Money League 2021 pubblicato a gennaio avrà, per i maggiori club europei, un crollo di 2 miliardi? Un po’ è la scommessa di mercato: oggi compri a poco e bene.  Un po’, si dice, conta anche l’ambizione personale di Stathopoulos. Bc Partners non ha nomi splendenti in portafoglio, e un grande club del football è un bel lustrino, e utile (avevano già provato con la Roma, ai tempi). Un po’ è la prospettiva milanese: come per il Milan, la parola magica è “nuovo stadio”. Sia Elliott che Suning hanno puntato su un’operazione da un miliardo (in due) che potrebbe avere un ritorno enorme. Ma la situazione è bloccata per molte cause, tra cui le elezioni, rinviate in autunno. E’ impossibile che Beppe Sala forzi la mano ora su un’operazione rischiosa per l’immagine: essere il sindaco che ha abbattuto il Meazza. Inoltre, coi chiari di luna della Milano svuotata dal Covid, sono in molti a prevedere che il mega quartiere del lusso, che sarebbe il vero business attorno allo stadio, potrebbe non funzionare più. Anche questo spinge Bc Partners a tirare sul prezzo.

 

Così restano le altre ipotesi, che sono diverse dalla vendita secca. Ma non è detto che siano vantaggiose, per Suning. A parte i nomi di fantasia circolati, c’è un’ipotesi più accreditata – anche se non risulta che ci sia nessun deal in vista. Carlo Festa, giornalista del Sole 24 Ore, ha raccontato giorni fa la pista del fondo americano Fortress, di cui si era parlato tempo addietro. Si tratterebbe di un’offerta “ibrida”, con una parte di acquisto equity e una a finanziamento del debito. Perché Fortress è un fondo di debito, lavora sui prestiti (ma a tassi alti) e non sulla logica acquisto-valorizzo-rivendo. Suning vuole vendere, ma ha sempre sostenuto di essere anche alla ricerca di qualcuno che entri come socio di minoranza o rifinanzi il debito (si parla di 200 milioni). A Nanchino fanno i conti, in silenzio come sempre. Così negli ultimi giorni ha iniziato a galleggiare un’altra ipotesi, quella saudita. Legata al fondo Pif, Public Investment Fund, presieduto da Mohammad bin Salman, il famoso amico di Renzi del Rinascimento saudita, e più che altro l’accusato dalla Cia per l’omicidio Khashoggi. Non c’è bisogno di dire che nelle chat nerazzurre informate s’è sparso un paradossale panico: “Sì, e poi ci ritroviamo allenatore Renzi e caccia anche l’altro Conte”, è la battuta meno macabra. Mentre la parte meno politicamente sofisticata della tifoseria sogna l’avvento dello sceicco coperto d’oro e spendaccione. La situazione è diversa. Si dice che potrebbe entrare per una percentuale fino al 30 per cento della valutazione del club. Ma, secondo i dubbiosi, non ha senso pagare 300 milioni per restare in minoranza. Per altri analisti, semplicemente al momento la proposta non c’è. E va detto che al fondo di Bin Salman fu impedito anni fa di acquistare il New Castle in Premier League perché risultarono ingerenze sospette.


Stili differenti di investimenti stranieri. Ma il sogno del modello Bayern, caro a Cottarelli, è solo un’utopia in un sistema traballante


 

In tutto questo mistero, che appassiona la finanza e ovviamente gli interisti, c’è un aspetto che però riguarda, in prospettiva, il calcio italiano e il suo modello assai zoppicante. Se l’ipotesi Bc Partners si realizzasse, entrambe le squadre di Milano sarebbero proprietà di fondi di investimento. Lo stesso è capitato allo Spezia. Non mecenati vecchia maniera e nemmeno sultani che spendono patrimoni per il loro proprio lustro: fondi che puntano a far crescere il valore e a rivendere. Roma e Fiorentina sono in mano a imprenditori americani di diverso tipo, ma che hanno in mente una crescita soprattutto economica (per tutte e due la grana è lo stadio, in un paese conservativo e demenziale come l’Italia). Il calcio italiano, in mancanza di Paperoni autoctoni o stranieri, rischia di diventare una miniera da scavare e, se va male, spolpare. Senza una prospettiva che vada oltre i cinque anni di stabilità. Niente a che vedere con la ricchezza stabile dei club inglesi. Niente a che vedere con un modello virtuoso come quello tedesco, che ha imposto da anni alle società di destinare la maggioranza della proprietà all’azionariato diffuso, territoriale, interessato alla crescita e alla stabilità dell’impresa sportiva. Il modello inarrivabile è il Bayern Monaco, con le sue “tre A”, Adidas, Audi e Allianz, aziende tedesche, che garantiscono l’ossatura e un grande azionariato fatto di piccole e medie aziende, di privati. E’ il famoso sogno di Carlo Cottarelli, interista doc, che con altri appassionati ha messo in piedi Interspac, una cordata che vorrebbe essere il motore di un modello Bayern. Ma servirebbe almeno una grande azienda locale disposta a fare il passo, che però non è alle viste. (Il sogno degli interisti? Leonardo Del Vecchio, grande fan della Beneamata, ma lungi da lui. L’altro sogno, più romantico? Il ritorno di Moratti assieme a Pellegrini. Ma per romantici che siano, hanno già detto no). Così c’è solo il grande enigma di Nanchino, aspettando la Nuova èra del calcio che verrà.

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