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Il Foglio sportivo

“Il calcetto, radice e destino del calcio”

Giorgio Burreddu

L’importanza sociale del calcio a 5, tra crowdfunding e “second life” per chi non sfonda a 11

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Qualche mese fa, quando chiesero a Luca Bergamini come mai avesse deciso di candidarsi alla presidenza della Divisione calcio a 5, lui rispose che “nessuno può sottrarsi al destino”. Può suonare fuori luogo quando in ballo c’è un ruolo politico, ma non è così. Il futsal in Italia è il gioco più diffuso che c’è, vanta 160.000 tesserati, 250 società nazionali e 100.000 partite a livello regionale. “Il nostro è un movimento consolidato ma anche in espansione – racconta Bergamini al Foglio Sportivo – anche con la pandemia stiamo portando a termine tutti i campionati nazionali. Il sacrificio delle squadre e dei presidenti è figlio della passione, del valore del gruppo, della comunità. Forse anche io non avevo capito tutto questo fino in fondo, finché non l’ho toccato con mano. L’avevo sottovalutato”. Prima delle elezioni dello scorso gennaio, la divisione arrivava da un duro e faticoso commissariamento, con tutte le grinze che una gestione di quel tipo si trascina. Ecco allora Bergamini, da giocatore di calcio a 5 a numero uno della Federazione in una parabola che deve aver per forza a che fare col destino.

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Qualche mese fa, quando chiesero a Luca Bergamini come mai avesse deciso di candidarsi alla presidenza della Divisione calcio a 5, lui rispose che “nessuno può sottrarsi al destino”. Può suonare fuori luogo quando in ballo c’è un ruolo politico, ma non è così. Il futsal in Italia è il gioco più diffuso che c’è, vanta 160.000 tesserati, 250 società nazionali e 100.000 partite a livello regionale. “Il nostro è un movimento consolidato ma anche in espansione – racconta Bergamini al Foglio Sportivo – anche con la pandemia stiamo portando a termine tutti i campionati nazionali. Il sacrificio delle squadre e dei presidenti è figlio della passione, del valore del gruppo, della comunità. Forse anche io non avevo capito tutto questo fino in fondo, finché non l’ho toccato con mano. L’avevo sottovalutato”. Prima delle elezioni dello scorso gennaio, la divisione arrivava da un duro e faticoso commissariamento, con tutte le grinze che una gestione di quel tipo si trascina. Ecco allora Bergamini, da giocatore di calcio a 5 a numero uno della Federazione in una parabola che deve aver per forza a che fare col destino.

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Col calcio cominciò al Massimiliano Massimo, l’istituto cattolico di Roma che ha tirato su anche Mario Draghi e Giancarlo Abete. Portiere, ma non per vocazione. Anche lì, il destino. “Un classico: il portiere titolare con l’influenza, la ricerca di un sostituto, io che dico ok ci provo, e così è cominciato tutto. Ma prima facevo il centravanti”. L’esperienza nel settore giovanile della Roma, un prestito alla Lodigiani, “ma a diciannove anni lasciai perdere, le opzioni nel mondo del calcio professionistico erano inaccettabili, e in più stava esplodendo il fenomeno del calcio a 5”. Strutturatosi alla fine degli anni Settanta con la Federcalcetto, il futsal subì un primo mutamento nel 1983. Un anno chiave, quello del primo vero campionato nazionale di calcetto. In finale arrivò anche la Roma RCB, la squadra che Luca e un gruppo di altri ragazzi si erano inventati. “Era una squadra di amici, la logica era restare insieme, mantenere il gruppo, la nostra identità. Era il ritrovarci intorno a un pallone con impegno, volontà, costanza. Tanta applicazione. Mi viene da sorridere: di quel gruppetto facevano parte ragazzi che oggi sono grandi chirurghi, manager, figure di spicco come Giovanni Malagò, Renato Botti, Alfio Marchini...”. Vinsero quattro scudetti e due coppe nazionali. 

 

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C’è dunque qualcosa di più profondo dietro alla scalata di Bergamini alla presidenza della Divisione, qualcosa che va oltre l’istituzione. “Ho una visione sacra del sociale. Tutti abbiamo iniziato a giocare in un giardino, davanti alla porta del garage, per le strade. Il calcio a 5 per me è quello, il bozzolo da cui nasce anche il calcio. Ho avuto la sensazione, e ce l’ho ancora, che il calcetto non fosse abbastanza consapevole di questa dimensione sociale che invece deve esaltare e perpetrare”. 

 

Il calcio, va avanti Bergamini “è andato verso una dimensione imprenditoriale, gli interessi spesso prevaricano le passioni. Nel calcio a 5 no, la dimensione del vivere famiglie sportive che si protraggono nel tempo dovrebbe avere una maggior tutela”. È un concetto che oltrepassa l’idea di professionismo e si avvicina molto di più a quell’ora, a quell’esperienza benedetta o maledetta che molti appassionati ricercano ogni settimana dentro alle palestre o nei campi sparsi in ogni dove. Un’ora che scandisce non solo il tempo dello sport, ma anche il valore dell’unione. “È la passione ancestrale della piccola comunità, del vivere vicini, una passione sportiva non solo figlia del risultato sportivo o del raggiungimento del vertice. È questa integrità che voglio far riconoscere al calcio a 5, voglio che questo sia in qualche modo il filo conduttore della mia presidenza”.

 

È già stato avviato un dialogo con i vertici della Figc e della Lnd, e sono già in cantiere dei progetti. Il primo: una piattaforma crowdfunding per sostenete direttamente le società. Funziona negli Usa, nei college. “Non sarebbe bello decidere di poter sostenere la squadretta in cui sono cresciuto o quella del mio paese? Magari ho bisogno di cento palloni per la scuola calcio a 5, questo è un modo diretto per farlo. Lo sport dilettantistico si è retto troppo a lungo sulle sponsorizzazioni reali o presunte. Questo potrebbe diventare un modello pulito, sano”. Il secondo progetto riguarda il drop out dal calcio. “I club, soprattutto le Primavere, perdono troppi tesserati. L’imbuto è stretto. Sarebbe bello dare a questi ragazzi una second life. Magari creando un protocollo con le leghe e con le università per sostenere anche un percorso di formazione”.

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Cresciuto alla Magliana, 59 anni, avvocato come sua moglie Angelica “che è il vero supporto in tutto quello che faccio”, Bergamini lo sport lo ha sempre guardato da una posizione laterale, ha sempre cercato punti di vista diversi, i settori giovanili (alla Roma, al Bologna, un’esperienza al Barcellona, una in Canada con i Montreal Impact), visioni persino controcorrente. Lo ha fatto da giocatore. Ha smesso a 31 anni, “presto, ma è come se non l’avessi mai fatto. A un certo punto sentivo talmente le partite che mi era venuta la gastrite. Per me quella passione è una partita infinita. Una volta alla Roma mi beccarono che ero andato a giocare una partita di calcetto, era un Italia-Olanda. Non volevo mancare. Mi misero fuori rosa. Mi ricordo tante cose: le sfide al Foro Italico strapieno, o quella volta che andammo a giocare in Brasile per i Mondiali del 1982 e c’erano più ventiseimila spettatori”.

 

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Ma lo ha fatto anche da manager in Serie A. “Ho imparato che l’inadeguatezza è un grande sentimento. Ho sempre pensato di non essere all’altezza e questo ti fa mettere in dubbio le certezze. È così che ti migliori”. Competenze che ora vuole trasferire nella sua passione, quella del destino. E magari diffonderla. “Raccontare le storie degli uomini è impegnativo. Ma sono quelle che ci devono interessare. Vorrei arrivare a un giorno in cui un bambino sogna di essere non Messi o Ronaldo ma un giocatore di calcio a 5. Per farlo, serve un modello diverso”.

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