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Distanti ma paralleli

La solitudine dei numeri 10

Malcom Pagani

Il calcio e la passione per la Roma. Lo studio, l’allenamento, il lavoro. La diffidenza circospetta e le barzellette. Mario Draghi e Francesco Totti. L’uno preoccupato dal presente, l’altro dal futuro. 

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Domenica scorsa, nel giorno santificato al dio pallone, Francesco Totti ha officiato la sua personale cerimonia della Campanella. Libero, finalmente, di camminare in mascherina per la città proibita, mentre chi da poche ore indossava la maschera da neo capitano di un paese sull’orlo dell’ammutinamento perdeva uno dopo l’altro i suoi più elementari diritti. Niente più gite al parco, file dal macellaio o peripli in solitudine del mercato rionale, ma auto blu, scorte, flash e riunioni allargate per trovare in uno spogliatoio turbolento la sintesi che Angelo Massimino avrebbe voluto acquistare per il suo Catania: “Presidente, a questa squadra manca l’amalgama”, “Ditemi dove gioca e io lo compro”.

 

Se l’astrazione avesse un prezzo, Francesco Totti non avrebbe governato da predestinato in tante diverse epoche né vestito una sola maglia per 25 anni. Ma Totti, al pari di “mister where is he?”, c’era anche quando non c’era. Era un urlo selvaggio nel condominio di un giorno di festa, un’appartenenza identitaria filtrata da una radio in un taxi qualsiasi, un fideismo collettivo che non ammetteva eresie. Il peso che tocca ai migliori, ai successori naturali, ai delfini designati. La matematica del sentimento. La storia di sempre, che rotolassero palloni, teste o numeri. Era accaduto a un Totti ventenne con Giuseppe Giannini, re detronizzato ed esiliato in Austria: “È il mio erede”, proprio come a uno dei mentori di Draghi, Guido Carli.

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Uno sulle cui spalle – “Il suo prestigio era tale che veniva considerato sempre come l’ultima spiaggia per l’Italia, l’ultima speranza perché si potesse fare qualcosa” ricordò Mario stesso – gravava la medesima aspettativa che oggi in un gioco di specchi riflessi investe Draghi di luce e che domani, fiutando il vento che viene dal mare, potrebbe trasformarsi in ombra e presagio di tempesta. In quel ruolo non si potrebbe essere più soli. Nessuno vuole essere Robin e nessuno ha mai concesso ai due numeri 10 da prima pagina il privilegio dell’oblio. Per vie traverse, tra un aeroporto e l’altro, ognuno dei due si è occupato di cose serissime inseguendo una propria idea di tregua. Draghi mettendo in scena nei teatri di tutto il mondo uno spettacolo algebrico in cui la formula, come la soluzione, non prevedeva l’applauso e l’eccezione non confermava quasi mai la regola. L’altro, Totti, braccato dal proprio talento, da alcune claque insincere e da alcuni milioni di adoratori, proteggendosi in brevi tragitti dalle palme dell’Axa, la California di Roma, a Trigoria in un turbinio di allenamenti, ritiri, partite e brevi soste in famiglia.

 

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È caduto, si è rialzato, ha segnato molto, parlato pochissimo, vinto meno di quanto il suo genio non avrebbe meritato, lasciato sugli spalti molti orfani. E quando ad essere ammazzato è stato lui, come il Pablo della canzone, è risorto dimostrandosi più forte e più dialettico (documentari, libri e serie tv, domani chissà) degli epitaffi anticipati che oggi come ieri, con ironia, Draghi allontana da sé in maniera proporzionale al ritmo dell’altrui curiosità: “I giornalisti cercano notizie su di me? Devono scrivere un necrologio?”. Draghi ama il calcio, legge il Corriere dello Sport e tifa per la Roma. Considera Totti un filosofo, un artista e forse qualcosa di più. Non sappiamo se Carlo Draghi, suo padre, lo portasse sugli spalti del vecchio Olimpico ancora esposto alla pioggia a tifare in età adolescenziale.

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In campo, Ginulfi, Angelillo e Giampaolo Menichelli (quasi omonimo di quel Donato Menichella che con Draghi padre aveva lavorato negli uffici di liquidazione della Banca italiana di Sconto e all’Iri e che proprio come Draghi figlio, conosciuto che era ancora bambino in treno verso Padova, scrisse Mario Sarcinelli, covava un singolare “rifiuto per le luci della ribalta accademica e politica”), sugli spalti, fino alla fine, a differenza del fratello Marcello che abbandonava la tribuna a 5 minuti dal gong per evitare il traffico, Mario. Che entrò al ministero del Tesoro come consulente di uno dei più giovani presidenti del Consiglio della storia repubblicana, Giovanni Goria, e nelle domeniche vuote del 1982 andava probabilmente a sommare il suo canto a quello di altri 80.000 ossessi ai piedi della collina di Monte Mario. Draghi non aveva più i capelli lunghi figli di certe tenui simpatie sessantottine non ancora sporcate dal contatto diretto da professore, a Trento, con le orde di universitari sfaccendati che pretendevano l’esame collettivo, né geografie definite né targhe a suo nome, ma ascoltando un “Lode a te / Roberto Pruzzo” e osservando Nils Liedholm infagottato nel piumone giallo guidare Tancredi, Ancelotti, Bruno Conti, Agostino (a Roma c’è un solo Dibba, non faceva dirette su Facebook) e tutti gli altri suoi ragassi lanciati alla conquista di un incredibile scudetto, intuiva in che direzione potesse andare la felicità. La sua domenica aveva un itinerario definito.

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Un tram in discesa da Via Aldrovandi al quartiere Flaminio. Un chilometro di buon passo tra venditori di bandiere e Caffè Borghetti. Una sciarpa al collo. Le scale dell’arena da salire con i cori in sottofondo. Prima distanti e poi prossimi, sempre più indistinguibili, in un effetto non dissimile dal prodigio di via Piccolomini con San Pietro che non si fa avvicinare dall’occhio e il Vaticano che più ti proietti verso l’ascesi e più la preda si allontana. Con il titolo di campione d’Italia, alla Roma, era successo per decenni. Prima della stagione 1982-1983, era capitato di festeggiare soltanto una volta, nel 1942. A Giampiero Boniperti che ne attribuiva il merito ai gerarchi in divisa più che ai generali in mutande Masetti e Amadei, Giulio Andreotti, romanista tra i romanisti, rispondeva col sarcasmo: “Se fosse andata come dice lei ne avremmo vinti molti di più. Non è strano che il titolo sia arrivato proprio al tramonto del regime?”.

 

79 anni fa Totti e Draghi non erano neanche dei progetti. Andreotti invece aveva iniziato a tifare per la Roma da ragazzino, nel 1927: “Prima, anche a volerlo – sorrideva – la squadra non era stata fondata” e aveva sostenuto la vocazione con ostinazione uguale e contraria a certi apostoli della chiesa sua. Remo Gaspari aveva compiuto il miracolo, bucato le montagne e fatto arrivare l’autostrada in Abruzzo facendosi scudo, da vero crociato, della forza elettorale della Dc. Con gli stessi elementi elevati alla decima, il suo comandante, Andreotti Giulio, aveva interrotto i collegamenti sull’A1 tra Roma e Milano per ragioni di stato “sconsigliando” a Ivanoe Fraizzoli, presidente dell’Inter, l’acquisto di Paulo Roberto Falcao. Giulio minimizzò parlando di ruolo marginale, Roma fu grata a prescindere, l’omologo romano di Fraizzoli, l’acuto Dino Viola, si sistemò in Senato tra i banchi della maggioranza senza più farne una questione di centimetri e Andreotti festeggiò l’evento a bordo di Zara 87, una Fiat, l’ennesima perfidia, con l’amico Alberto Sordi in un film meno luminoso di certi segni paralleli troppo simili ai sogni per essere sottovalutati.

 

La carezza del Papa a Totti bambino in piazza San Pietro a favore di fotografo. Il celebre scatto del febbraio 1987, a due mesi dal mese più crudele che ci privò di Primo Levi e Federico Caffè. Draghi è sulla porta e osserva Carlo Azeglio Ciampi (vicino di casa di Carli e di Draghi sulla direttrice via Anapo-Via Panama-viale Bruno Buozzi), un altro pontefice, il presidente della Banca mondiale Barber Conable e lo stesso onnipresente Andreotti in un incontro ai margini del Craxi bis. Draghi e Totti sarebbero arrivati a giurare davanti a una Costituzione reale o immaginaria e nei momenti liberi avrebbero continuato a discutere di calcio. Draghi lo faceva spesso con il Divo (da divo inconsapevole) nei suoi periodici incontri da direttore generale del Tesoro con il presidente proprio mentre un altro presidente, Giuseppe Ciarrapico, acquistava la Roma e un paio d’anni più tardi, nel 1993, davanti al padre di Giovanni Malagò, Vincenzo, celebrava l’esordio di Totti in quel di Brescia.

 

Francesco era poco più di un adolescente che all’età acerba aveva dovuto rinunciare. I coetanei da un lato, impegnati a divertirsi, tutt’al più afflitti da qualche angustia amorosa di estrazione wertheriana e Francesco a imparare nel mondo adulto a sbagliare da professionista. Allenarsi, mangiare bene, dormire presto, non farsi male. A Mario Draghi per ragioni più cupe era successo lo stesso. Era rimasto presto senza genitori e aveva dovuto occuparsi della realtà. Gli amici liberi di prolungare l’estate in un’eterna vacanza e lui ancorato alle responsabilità: dei fratelli minori, dei tutori, dei tribunali, delle bollette da pagare e del dolore che, come disse una volta “non ti permette di compiangerti ma ti sprona a reagire, ti solleva dalle malinconie e ti salva dalla depressione”: Whatever it takes. Triste, smarrito e confuso si sentì anche Totti quando dopo vent’anni di esecutivi monocolore avvertì prima il rumore dei carrarmati, poi la voce di Spalletti, l’amico diventato nemico giunto sulla scena per rubargliela, infine l’acre sospetto di un putsch che si pretendeva più o meno pacifico.

 

“Fatti da parte finché sei in tempo” gli suggerivano i mediatori rassegnati o peggio interessati a un finale già scritto. I più impudichi addirittura, dopo averlo blandito per anni, lo accusavano di aver “imprigionato” la Roma e di averle impedito un’evoluzione. In cambio dell’abdicazione gli offrivano un passaporto diplomatico, un’ultima passerella, una medaglia aziendale. Era stato il Re. Non poteva accettare. Gli era stato insegnato, non diversamente da Draghi, che il lavoro “è la cosa più importante al mondo”. Rifiutò l’idea, si batté fino all’ultimo e poi si arrese (al carcere della fedeltà e della monogamia, ancor più che all’età) ottenendo in cambio l’amore incondizionato del pubblico nel più affollato e commosso spettacolo a memoria d’uomo promosso nel suo teatro. Il 28 maggio 2017, giorno in cui erano previsti originariamente due veri referendum poi annullati, se ne tenne uno soltanto. Virtuale, plebiscitario e definitivo. Un consenso assoluto che oggi investe Mario Draghi. Lui sostiene che andando avanti con gli anni i ricordi si confondano in una nebbia indistinta: “Più invecchio, più mi accorgo che non c’è nulla che cambi come il passato”.

 

Draghi è preoccupato dal presente. A Totti faceva paura soprattutto il futuro. Prima delle partite dormiva poco, più o meno le tre ore che bastavano e bastano all’insonne Draghi per riannodare i fili. Quelli di Totti, spezzati, dovevano ricongiungersi e trovare la via d’uscita dal labirinto. Si era deciso a diventare keynesiano senza conoscere Keynes: “Quando i fatti cambiano, io cambio opinione”. L’aveva cambiata e in un istante aveva stravolto vita e abitudini. Non era più tempo di barzellette che pure per Totti erano diventate un genere letterario. Nelle pause dei vertici internazionali ne raccontava di rimarcabili anche Draghi, anche se dietro al volto imperscrutabile e alla faccia da poker di cui era arduo interpretare le intenzioni, il lazzo prendeva sempre la forma dell’apologo morale, della massima durrenmattiana e dell’autoironia: “Un uomo deve subire un trapianto di cuore. Il chirurgo gli propone quello di un bambino di 5 anni e il malato rifiuta: troppo giovane. Allora il medico vira su quello di un banchiere d’affari quarantenne e si sente rispondere: no grazie, quelli non hanno cuore. L’ultima possibilità è il cuore di un banchiere centrale settantenne e finalmente il paziente accetta: quello lo prendo perché tanto non è mai stato usato”.

 

Quando Totti e Draghi l’hanno fatto pulsare senza proteggerlo o si sono svelati per un errore di distrazione hanno pagato dazio. Non a caso Draghi ha gli stessi amici di sempre e proprio come Totti, la stessa diffidenza circospetta. Gli stessi espedienti, persino. Totti girava in motorino con il casco integrale per evitare di farsi riconoscere e Draghi ricorreva al trucco dell’ascensore: fingeva di entrare con i membri dello staff e a un secondo dalla chiusura delle porte si ritraeva per restare solo e non essere costretto a parlare per forza. Il Draghi che neanche quarantenne si informava preventivamente anche sui nomi che avrebbero mangiato la pizza con lui nelle rimpatriate d’ufficio è il medesimo che in 74 anni ha concesso meno interviste dei 18 rigori sbagliati da Totti in carriera.

 

Il rapporto con la stampa è stato alterno per entrambi e schiere di apologeti e detrattori si sono avvicendate a seconda delle convenienze. Totti, da calciatore, ha dovuto apprendere l’arte della prudenza. Draghi, animato da un riserbo strutturale, ha rapidamente capito che derogarvi gli avrebbe nociuto. Una volta, al Roman Sport Center, la palestra che affacciava su Villa Borghese, non l’aveva fatto e se ne era pentito. Parlando di privatizzazioni e della pioggia di miliardi che sarebbero potuti arrivare nelle disastrate casse italiane dall’ipotetico collocamento in Borsa di moloch statali come Eni, Enel e Iri, Mario si era confessato con un vicino d’armadietto come fosse al bar. Massimo Giannini infilò il borsone sulle spalle per andare via e gli strinse la mano presentandosi per la prima volta. Draghi sbiancò e la conversazione finì sulle pagine della Repubblica. Mesi dopo si rividero, Draghi la prese col sorriso: “Lei mi ha rovinato la vita”, ma da allora preferì il jogging in solitaria e non si fece sorprendere più. O quasi. Nel 2008 Valerio Staffelli lo intercettò per chiedergli conto delle contumelie in diretta televisiva di Cossiga. L’epiteto più gentile dell’ex inquilino del Quirinale era stato liquidatore e Draghi, che nelle sere in cui inseguiva l’evasione non disdegnava “Striscia la notizia”, ne divenne suo malgrado protagonista.

 

Furibondo, ma educato, ringraziò l’inviato per sette volte, domandò retoricamente “Ma lei ci crede?” non meno di cinque, chiuse con un buffetto paterno e poi inseguito da uno Staffelli galvanizzato dai passanti: “Vai Valerio, colpisci!” si concesse ancora al limitare di un semaforo. Abbassò il vetro, ammise di esserci rimasto “molto male” e lavorò di sarcasmo senza apparire altero: “L’importante, come le dicevo prima, è che lei non ci abbia creduto”. L’ultimo Draghi non istituzionale: abituato a trasformare i quesiti degli altri in domande o in momentanee cessioni di autonomia (“Lei che ne pensa?” o “Si dia lei la risposta” sono due tra le sue frasi preferite). Da allora il professore è stato cattedratico. Cavalleresco come d’ascendenza: un sms a Milena Gabanelli in coincidenza con la sua dipartita da “Report”, ma niente più. Confessarsi è un magro affare. C’è sempre il rischio che ti raccontino per quello che non sei. Totti, diventato adulto, si è aperto al mondo. Draghi, di fronte a una nuova giovinezza, ha giocato di sottrazione. La gara è appena iniziata e serve attenzione. Chi vince festeggia e chi perde spiega, ma l’italiano ha da sempre un solo vero nemico: chi arbitra la partita.

 

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