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Il Foglio sportivo

Per le strade di Tampa Bay l'insolità normalità di un Super Bowl mai visto

Roberto Gotta

La squadra di casa in campo, pochi vip, feste meste. Nella città della finale della NFL è tutto straordinariamente ordinario

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Nei giorni scorsi, nei giorni che hanno preceduto il Super Bowl LV tra Tampa Bay Buccaneers e Kansas City Chiefs, la città che ospita la partita, Tampa, non è sembrata meno attiva del solito. Ristoranti aperti, con gestione oculata dei clienti, negozi e centri commerciali frequentabili, sempre con attenzione alle norme base di protezione di sé e degli altri, il 75 per cento di stanze di hotel occupate. Una città normale, certo più dell’aprile scorso, quando era tutto chiuso e gli hotel erano pieni (cioè vuoti) al 17 per cento. E questo è un problema: perché una città che ospita il Super Bowl normale non può, non deve apparire. Dev’essere carnalità brulicante, umanità ondeggiante tra il buzzurro, il raffinato, l’esaltato e il nerd. Dev’essere il posto in cui il tifoso di una squadra lontana arriva con il camper e gira in calzoncini corti e sandali, sfiorando invece quello che si è affidato alla OLE, la On Location Experience gestita dalla NFL, che in cambio di molte migliaia di dollari ti porta in loco, ti dà una bella stanza di albergo, ti fa saltare la fila agli eventi e ti sistema, per la partita, in un posto dal quale puoi sentire persino il profumo dell’erba del campo, o in alternativa dei piatti dell’abbondantissimo buffet. Dev’essere assembramento di corpi, trasmissione di passione, contatto, strofinamento, odore, afrore, caos, che gli organizzatori ogni anno si illudono di saper gestire. Non c’è nulla di tutto questo, ovviamente, per via del Covid e per la singolare circostanza della presenza in finale della squadra di casa, fatto mai avvenuto nei 54 Super Bowl precedenti.

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Nei giorni scorsi, nei giorni che hanno preceduto il Super Bowl LV tra Tampa Bay Buccaneers e Kansas City Chiefs, la città che ospita la partita, Tampa, non è sembrata meno attiva del solito. Ristoranti aperti, con gestione oculata dei clienti, negozi e centri commerciali frequentabili, sempre con attenzione alle norme base di protezione di sé e degli altri, il 75 per cento di stanze di hotel occupate. Una città normale, certo più dell’aprile scorso, quando era tutto chiuso e gli hotel erano pieni (cioè vuoti) al 17 per cento. E questo è un problema: perché una città che ospita il Super Bowl normale non può, non deve apparire. Dev’essere carnalità brulicante, umanità ondeggiante tra il buzzurro, il raffinato, l’esaltato e il nerd. Dev’essere il posto in cui il tifoso di una squadra lontana arriva con il camper e gira in calzoncini corti e sandali, sfiorando invece quello che si è affidato alla OLE, la On Location Experience gestita dalla NFL, che in cambio di molte migliaia di dollari ti porta in loco, ti dà una bella stanza di albergo, ti fa saltare la fila agli eventi e ti sistema, per la partita, in un posto dal quale puoi sentire persino il profumo dell’erba del campo, o in alternativa dei piatti dell’abbondantissimo buffet. Dev’essere assembramento di corpi, trasmissione di passione, contatto, strofinamento, odore, afrore, caos, che gli organizzatori ogni anno si illudono di saper gestire. Non c’è nulla di tutto questo, ovviamente, per via del Covid e per la singolare circostanza della presenza in finale della squadra di casa, fatto mai avvenuto nei 54 Super Bowl precedenti.

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Anche in situazione normale, dunque, con capienza dello stadio interamente disponibile e non ridotta di due terzi (circa 25.000 spettatori), in città mancherebbe una delle due ondate di tifosi direttamente interessati, perché tanti tifosi qui già abitano. È anche per questo che la settimana che ha preceduto la sfida della notte tra domenica e lunedì, ora italiana, è stata diversa da tutte le altre. La NFL sapeva tutto, fingendo di non saperlo: ed ha predisposto la principale attrazione, la NFL Super Bowl Experience cioè una specie di parco di divertimenti a tema, con la grandiosità di sempre ma preoccupandosi di far entrare gli spettatori poco alla volta, su prenotazione e gratuitamente, al contrario di quanto accadeva in passato. I biglietti erano finiti già il 27 gennaio, per dire: ma le code al recinto in cui si può correre con la palla tra ostacoli di gomma o lanciare un pallone in un bersaglio erano più ordinate, meno caotiche, meno genuine. Perché anche lì è sempre stato il senso del Super Bowl: una sensazione crescente, dal lunedì al sabato, di un’ondata di marea che ti avvolge, che finge di consentirti l’autonomia di pensiero ma ti trascina via i piedi da sotto e ti porta con sé, e alla fine ti convinci che la destinazione è quella che comunque avevi sempre desiderato. Questa volta non poteva essere così e nulla ha dato il senso di disorientante distacco dalla norma come la celeberrima Radio Row, il settore che dal lunedì al sabato è riservato alle decine di radio che scelgono di andare in diretta dalla città della partita. Di solito, Radio Row è nel quartier generale dei media, recintato da transenne basse che permettono ai curiosi, numerosissimi, di sbirciare e indicare l’attore, il cantante, il giocatore che, scortato dal proprio plotone di addetti PR, passa da un’ospitata all’altra. È forse, nella comunione tra media e pubblico, l’occasione che maggiormente certifica la popolarità dell’evento. Ecco, quest’anno Radio Row era di una tristezza rara: poco più di 30 tavoli in un’area immensa, quasi tutti di stazioni di Tampa o Kansas City, con un numero minimo di ospiti illustri in carne ed ossa. Una desolazione che certifica l’anormalità di questa edizione. Anche se fuori dallo stadio non mancherà il solito predicatore, che con altoparlante e cartello che invita a staccarsi dai vizi del mondo, football compreso, sarà notato da tutti con sperimentata indifferenza, un “mo’ me lo segno” in salsa americana. E anche se quando entreranno in campo le squadre ci sarà un boato, inferiore rispetto ai precedenti: perché poi bisogna dirlo, che al Super Bowl l’atmosfera spesso è meno intensa che alle semifinali, perché si gioca in campo neutro e, al netto della percentuale del 25,2 per cento che la NFL riserva a sponsor e amici, le due finaliste ricevono ciascuna solo il 17,5 per cento dei biglietti disponibili. Le 30 squadre non presenti ricevono complessivamente il 34,8 per cento dei tagliandi, assegnati per sorteggio o gentile concessione ad abbonati e partner commerciali, ed è facile fare due conti, seppur empirici: se tutti i legittimi destinatari andassero realmente alla partita, e non rivendessero i biglietti, gli spettatori del Super Bowl sarebbero in larga parte neutrali, magari più interessati all’esperienza in sé che a tifare. Non molto più vivaci dei 30.000 sagomati che saranno allo stadio, con disponibilità esaurita già molti giorni fa.

   

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I tifosi non locali, normalmente, sono poi quelli, di solito circa 200.000 ma stavolta molti meno, che arrivano in città e portano addosso, con delicato orgoglio, la maglia della propria squadra, magari eliminata a un passo dal Super Bowl. Una sorta di carnevale di colori e posture graditissimo alla NFL che può gloriarsi di questa diversità di toni e fogge, e che quest’anno ha solo in parte sostituito il kitschissimo Gasparilla Pirate Festival, una sfilata di carri e navi ispirata a Juan Gaspar alias Gasparilla, ‘l’ultimo dei bucanieri’ – capito il nome della squadra di football, no? – che all’attivo avrebbe avuto decine di scorribande, tra Settecento e Ottocento, se avesse avuto l’accortezza di esistere, visto che si tratta di un personaggio immaginario. Spostata ad aprile per paura del Covid, la sfilata normalmente aggiungeva caos al caos nel centro di Tampa, ma stavolta ha lasciato spazio alla blandezza di gruppi di persone che cercavano solamente un ristorante aperto e praticabile.

   

A creare un’ulteriore distacco dal passato c’è anche l’identità di una parte degli spettatori del Super Bowl: circa 7.500 operatori sanitari della zona, tutti vaccinati, a cui la NFL ha regalato il biglietto come ringraziamento per l’opera svolta. La lega, è chiaro, ha fatto un gesto doveroso, forse scontato ma certamente coerente con il suo recente sforzo di trasformarsi in una onlus con il football come attività solo collaterale. Messasi nel maggio scorso, rapida e tremebonda, al passo con le richieste di giustizia sociale dopo le rivolte seguite alla morte di George Floyd, stavolta ha pure invitato la poetessa Amanda Gorman, giusto per tenersi buono il potere (appena) costituito: solo che l’annuncio della presenza della ragazza, innocente in tutto questo e anzi già così onesta da ammettere di provare la sindrome dell’impostore, cioè di chi non ritiene di meritare tutto questo clamore, è stato accolto almeno sui social media da una cospicua dose di scetticismo e ilarità, nate sia dalla lontananza di una figura del genere dallo spirito del football sia dalla minaccia di un cerimoniale pre-gara ancora più lungo del solito, con tifosi impazienti e giocatori che per la carica con cui escono dagli spogliatoi avrebbero bisogno di sfogasi prima possibile creando assembramenti e contatti, quelli leciti. Tra loro, ovviamente, Tom Brady e Pat Mahomes, 43 e 25 anni, i due quarterback, al decimo e secondo Super Bowl rispettivamente: la loro sfida un tema così ovvio che tra le categorie di scommesse accettate c’è anche quella che chiede se i due telecronisti della CBS menzioneranno, di Brady, prima l’età o il numero di finali giocate.

 

A proposito di numeri: una recente indagine di Google ha rivelato che al 28 gennaio, nelle ricerche online, comparivano 855 milioni di risultati per ‘Super Bowl 2021’ e solo 84 per ‘Super Bowl LV’. Nel 1969 l’idea di scandire i Super Bowl con i numeri romani era nata per ovviare alla confusione di una partita giocata a gennaio come finale di una stagione dell’anno precedente, e per dare importanza all’evento, ma sempre più tifosi ora badano solo all’anno effettivo di disputa della gara. Quanto all’altro obiettivo, il traguardo è stato raggiunto da un pezzo, anche alla fine di una settimana come una città sede del Super Bowl non ne aveva mai viste.

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