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Verso le Final Eight

Il rimbalzo della Reyer Venezia

Francesco Gottardi

Metodo, quarantena, vittorie. Parla il coach Walter De Raffaele

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Diecimila spettatori in un palasport – che diavoleria allora, la parola assembramento – il rimbombo dei cori, la Reyer Venezia di Walter De Raffaele che alza la prima Coppa Italia della sua storia. L’ultima normale immagine del nostro basket. Un anno e una pandemia fa: “Ne sembrano passati mille”, racconta il coach al Foglio Sportivo. “Fu una tre giorni incredibile, dal debutto con la Virtus Bologna alla schiacciata finale di Bramos. Giovedì partirà l’edizione 2021 e noi come a Pesaro ci saremo ancora. Sempre contro le vu nere: gli scherzi del destino”. L’accoppiamento, sì. Ma questa Reyer, nella pallacanestro travolta dagli eventi, rimane fattore costante e frutto del metodo. Come nella stagione in corso: “Tre duri mesi. Allenamenti in 4, dentro i giovanissimi: alcune partite abbiamo dovuto giocarle in 6”. Gli effetti di un focolaio in spogliatoio. “In estate ci eravamo detti di prepararci ad affrontare qualsiasi problema. Purtroppo il Covid è un’imprevedibile variabile in più per tutti”. Ma il caso Reyer va oltre la fatalità: “Eurocup, inizio novembre. Trasferta in Russia, palazzetto pieno e poche mascherine sugli spalti. Cinque giorni dopo metà squadra si ammala. Chi organizza una competizione internazionale dovrebbe garantire degli standard uniformi per la sicurezza dei giocatori”. Come assorbire la botta? “Esercizi individuali, propositività nel lavoro. Ma lo ammetto: fra i pochi presenti la frustrazione di non poter competere era tanta. Questo gruppo è sempre stato abituato a giocarsela. A vincere”. E infatti, recuperati gli indisponibili, la Reyer arriva di slancio – 5 W di fila – alle prossime Final Eight: “La squadra, il club e la città hanno dimostrato di avere questo Dna. Tutte in Italia hanno sofferto nell’ultimo anno, ma Venezia già dal novembre 2019 era in ginocchio per la devastante acqua granda. Una realtà che non molla mai e che noi abbiamo sempre cercato di rappresentare. Con capacità di resilienza”.

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Diecimila spettatori in un palasport – che diavoleria allora, la parola assembramento – il rimbombo dei cori, la Reyer Venezia di Walter De Raffaele che alza la prima Coppa Italia della sua storia. L’ultima normale immagine del nostro basket. Un anno e una pandemia fa: “Ne sembrano passati mille”, racconta il coach al Foglio Sportivo. “Fu una tre giorni incredibile, dal debutto con la Virtus Bologna alla schiacciata finale di Bramos. Giovedì partirà l’edizione 2021 e noi come a Pesaro ci saremo ancora. Sempre contro le vu nere: gli scherzi del destino”. L’accoppiamento, sì. Ma questa Reyer, nella pallacanestro travolta dagli eventi, rimane fattore costante e frutto del metodo. Come nella stagione in corso: “Tre duri mesi. Allenamenti in 4, dentro i giovanissimi: alcune partite abbiamo dovuto giocarle in 6”. Gli effetti di un focolaio in spogliatoio. “In estate ci eravamo detti di prepararci ad affrontare qualsiasi problema. Purtroppo il Covid è un’imprevedibile variabile in più per tutti”. Ma il caso Reyer va oltre la fatalità: “Eurocup, inizio novembre. Trasferta in Russia, palazzetto pieno e poche mascherine sugli spalti. Cinque giorni dopo metà squadra si ammala. Chi organizza una competizione internazionale dovrebbe garantire degli standard uniformi per la sicurezza dei giocatori”. Come assorbire la botta? “Esercizi individuali, propositività nel lavoro. Ma lo ammetto: fra i pochi presenti la frustrazione di non poter competere era tanta. Questo gruppo è sempre stato abituato a giocarsela. A vincere”. E infatti, recuperati gli indisponibili, la Reyer arriva di slancio – 5 W di fila – alle prossime Final Eight: “La squadra, il club e la città hanno dimostrato di avere questo Dna. Tutte in Italia hanno sofferto nell’ultimo anno, ma Venezia già dal novembre 2019 era in ginocchio per la devastante acqua granda. Una realtà che non molla mai e che noi abbiamo sempre cercato di rappresentare. Con capacità di resilienza”.

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È un termine ormai abusato. La storia del coach livornese però vale bene un’eccezione. E un passo indietro. Sempre Coppa, l’anno è il 2016 e l’avversario Milano: la prima di De Raffaele sulla panchina orogranata. “Un bel -29, subito”, sorride lui. “Eppure tutto è iniziato da lì. Mai avrei immaginato di contare sulla stessa base del roster così a lungo, soprattutto per come vanno le cose in Italia. Il nostro senso di appartenenza è un po’ retrò: l’abbiamo condiviso con i ragazzi e loro ce l’hanno restituito sul campo”. Due scudetti, una Europe Cup, la coppa nazionale. Nessuno più di Venezia negli ultimi cinque anni. “È stato un divenire, un crescendo. In primis ci vuole continuità tecnica. E poi la volontà di migliorare i giocatori”. Per questo la Reyer è un unicum, nel basket moderno delle porte girevoli. “Non potendo prendere i top player, la strada per competere ai massimi livelli è credere in chi viene qui con la motivazione giusta. E farlo crescere nel tempo: penso a Tonut, Mitchell Watt o Julyan Stone”. L’azzurro vivo, il centro elegante, il jolly tattico di De Raffaele. “Forse solo Michael Bramosthe Shot, il capitano – ha sempre avuto un percorso di alto livello prima di consacrarsi da noi”. E non c’è nemmeno bisogno di citare Austin Daye – Mvp dell’ultima Coppa Italia e dell’ultimo scudetto assegnato –, trasformato nella Reyer da diamante grezzo a clutch player. “E continuiamo a perseguire la nostra filosofia mettendo in squadra un ragazzo di 17 anni – Davide Casarin, figlio d’arte del presidente Federico”.

 

Puntualmente però, alle prime difficoltà scoppiano le critiche attorno a De Raffaele. “Potrei metterli in fila i cantori del nostro de profundis: giornalisti, pseudotifosi. Se poi ogni volta li smentiamo con un trofeo, va bene così”. Forse chi contesta fatica a capire. “Il perché non ci interessa: siamo sempre stati coerenti sul lavoro e sulle idee. Abbiamo scelto di mantenere questo gruppo negli anni perché convinti che ognuno avesse ancora qualcosa da dare, spremendosi per raggiungere il 100 per cento. Un concetto troppo spesso trascurato: il basket di oggi è tutto e subito. C’è poca pazienza da parte dei club, ossessionati dai risultati. Alla Reyer i risultati sono parte di un progetto più ampio: fare coaching”.

 

Ha vinto tutto. Eppure non è un caso, se pensando alla partita clou della sua gestione, De Raffaele cita una sconfitta: “In Turchia contro il Pinar Karsiyaka. Ambiente ostile, bolgia sugli spalti e battaglia in campo. Dall’andamento pazzesco: sotto di 15 nel primo quarto, lì è venuto fuori il vero senso della squadra e abbiamo ricucito fino al -3, completando la rimonta al ritorno”. La Reyer finirà quarta, in quella Champions League 2017. “Facile scegliere gara 7 contro Sassari – il capolavoro dell’ultimo tricolore – o gara 5 contro Trento – lo spartiacque del precedente. Ma quel ko mi è rimasto dentro. Ci ha dato la percezione di quanto avremmo potuto fare nel lungo termine”. Insieme alla lunga vita on the road. Dove si forma l’anima di uno spogliatoio di basket: “Ne succedono davvero di tutti i colori, e di mezzo c’è spesso Stone – tipico chill guy: una volta, dopo una trasferta in Finlandia, dovevamo ripartire all’alba con un microaereo. Gelo, neve. Non riuscivamo più a trovare Julyan: era rimasto a letto. Arrivò comunque prima del nostro addetto stampa, che aveva rischiato di restare là per davvero. Così pagò la colazione a tutti. Che con i prezzi di Helsinki è come una cena di pesce a Mestre”.

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Si scivola sul piano delle emozioni. Fino al centro storico. “Nessun flash, in tutti questi anni, è stato più forte di quel 23 giugno 2017: solo una città al mondo si può permettere un corteo in Canal Grande per festeggiare la vittoria del campionato. Con le gondole, le chiatte, la gioia della gente che ci acclamava dalla riva e il ponte di Rialto coperto di bandiere orogranata”. Mentre giocatori e tifosi saltano da una barca all’altra. La voce si scalda: “Cosa significa portare a vincere Venezia? Avere la meglio su squadre più strutturate. Ma soprattutto restituire una dimensione reale a intere generazioni, cresciute nel racconto dei trofei vinti al tempo dei loro nonni (anche l’unica Coppa Italia di calcio risale al 1941, ndr). È l’identificazione di un territorio in una squadra che sa coinvolgere. E questo riscontro noi lo sentiamo anche oggi: nonostante i tifosi non possano venirci a vedere, cerchiamo di dare un po’ di sollievo. In una fase in cui i problemi sono ben più grandi dell’esito di una partita”.

 

Nei discorsi a margine del trionfo, De Raffaele ha sempre scelto un leitmotiv: vivere l’epoca. Quant’è diventato difficile: “Cerco di condividere con tutti l’idea di soffermarsi su quel che si ha”, insiste. “Perché poi non ci sarà più, lo sport è ciclico e la vita incerta. Arriveranno i momenti difficili e magari allora ci si potrà gustare ciò che è stato, ma che lì per lì non eravamo riusciti a godere a pieno. Credo che sia uno sforzo necessario: quando poi accadono disgrazie come questo virus, mi viene da riflettere su quanto siamo precari. Su quanto siano poche le cose a cui siamo veramente legati”. Per Walter, il frutto del lavoro e la famiglia che lo accompagna sempre: “Cerco di assaporare la mia dimensione, ma confesso di non riuscirci sempre. Anche sul parquet: quando vinco penso già alla gara successiva, somatizzo molto di più le sconfitte. Mia moglie è una grande maestra: la invidio per la  capacità di vivere ogni momento. Io ci lavoro da anni”.

 

È quasi un cammino epicureo, nel senso più positivo del termine, quello tracciato dal coach: “Prendo ad esempio la Coppa Italia in arrivo. Certo dispiace non avere il pubblico, perché in fondo siamo dei teatranti. Ma non si può non aggrapparsi all’importanza in sé di riuscire a giocare: per la tenuta di un movimento sportivo che altrimenti rischia di sparire, per garantire continuità di retribuzione e portare avanti la stagione”. Quella della Reyer? “La viviamo alla giornata. Sapendo che è difficile fare programmi e adattandoci. Ma consapevoli di avere una società alle spalle che vuole crescere, magari con un palazzetto nuovo, e rimanere competitiva. Il senso di quel che ho provato a fare, vivere l’epoca, sta esattamente nel cogliere le sensazioni che stiamo passando fino a trasmetterle in campo e attorno. Anche con gli spalti vuoti”. Tra i film preferiti di De Raffaele ce n’è uno immancabile per un toscano doc, il cui titolo è tratto da una lettera di Petrarca che sembra scritta su misura: Non tutto in terra / è stato sepolto: vive l’amor, vive il dolore; ci è negato / veder il volto regale, perciò non ci resta che piangere e ricordare.

 

 

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