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Il Foglio sportivo

Milan, non essere cattivo

Giuseppe Pastore

I rossoneri non possono diventare ciò che non sono. Finora hanno vinto grazie a intelligenza ed entusiasmo. Inventarsi cattivi non serve

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Da quando la cattiveria è diventata un valore? Come naturale e benvenuta forma di reazione al buonismo imperante, diranno in molti, a vario titolo infelici. Ma “cattivo” è un aggettivo positivo? E nello sport, la cosiddetta “cattiveria agonistica” – quella che ti fa chiudere la partita al primo match point o ti fa segnare alla prima occasione da gol – ha qualcosa a che spartire con la cattiveria tout court, lo sguardo truce, la frase sprezzante, l’entrata pesante, la gomitata ben assestata lontano dagli occhi dell’arbitro?

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Da quando la cattiveria è diventata un valore? Come naturale e benvenuta forma di reazione al buonismo imperante, diranno in molti, a vario titolo infelici. Ma “cattivo” è un aggettivo positivo? E nello sport, la cosiddetta “cattiveria agonistica” – quella che ti fa chiudere la partita al primo match point o ti fa segnare alla prima occasione da gol – ha qualcosa a che spartire con la cattiveria tout court, lo sguardo truce, la frase sprezzante, l’entrata pesante, la gomitata ben assestata lontano dagli occhi dell’arbitro?

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Lasciamo da parte il triste siparietto da Celebrity DeathMatch di martedì scorso, utile soprattutto ad appurare la scarsa conoscenza della lingua inglese da parte del giornalista medio, incline a confondere “donkey” con “monkey”.

   

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Ma la cattiveria – qualsiasi cosa sia – dovrebbe essere il nuovo attesissimo ingrediente del Milan 2021, dopo che fino a Natale non ha minimamente fatto parte della dieta che ha condotto la squadra di Pioli a un prolungato primo posto fondato sull’intelligenza tattica, l’organizzazione, l’entusiasmo, la freschezza atletica.

 

L’esortazione a diventare più cattivi nasce forse dalla diffusa ingenuità con cui hanno perso la prima partita in campionato contro la Juve lo scorso 6 gennaio, gara sostanzialmente equilibrata ma decisa in negativo da due esitazioni difensive di Romagnoli e Theo Hernandez sui due gol di Federico Chiesa. E allora, più cattivi! Sì, ma come? Si può diventare cattivi per effetto di un Dpcm o con la sola imposizione di Mario Mandzukic, che da anni è protagonista suo malgrado di una narrazione sulla cattiveria che ne oscura gli enormi meriti tattici e fisici, al momento fatalmente arrugginiti dopo un anno e mezzo lontano dal calcio vero? E Stefano Pioli, uomo nella cui carriera si fa fatica a ricordare un singolo frame di cattivismo, può improvvisamente rivaleggiare in materia contro Conte o Gasperini, due uomini  – prima ancora che due allenatori – che sussurrano all’ossessione?

   

Su questo equivoco, solo apparentemente ozioso, sta attualmente ballando la stagione del Milan, che si sta obbligando da solo al salto di qualità necessario per passare dallo status di candidata alla qualificazione in Champions a quello di candidata allo scudetto. In attesa di capire come andrà a finire con Dzeko, è l’unica squadra di vertice ad aver fatto mercato in entrata, con nomi da scaldare in padella giusto un paio di minuti prima di essere serviti nella grande tavolata del girone di ritorno. Con i decibel sollevati dall’arrivo di Mandzukic il Milan si sta forse un po’ illudendo di riempire il silenzio dei propri pensieri meravigliosi, ma faticosi da sostenere, semplicemente alzando il volume. È dunque questa, la pressione? Ed è giusto pretendere l’iscrizione immediata al Partito Unico della Cattiveria di gente come Diaz, Saelemaekers, Rafael Leao, Calabria, Calhanoglu e capitan Romagnoli che non hanno mai avuto la bava alla bocca come condizione naturale? E qualora questo switch mentale venisse forzato, come si fa con i computer quando si impallano, non si rischierebbe di provocare disastri? Sarà certamente una coincidenza, ma da allegra cooperativa del gol, in grado di mandare a segno anche sei-sette giocatori diversi consecutivi nei momenti migliori, da quattro partite – ovvero dal ritorno in pianta stabile di Ibrahimovic nell’undici titolare – l’AC Milan è diventato AC Zlatan: tre gol in 390 minuti, tutti dello svedesone capo-branco dietro al quale, in questi momenti di buriana, i ragazzini terribili dell’autunno preferiscono starsene acquattati, eleggendolo nientemeno che a dio degli eserciti, come ha fatto Theo Hernandez mercoledì sera in un discutibile post da social – una dimensione, quella social, sempre più onnipresente in un universo-mondo in cui è faticoso uscire di casa. E dunque va a finire che se ti aggrappi a Ibrahimovic devi prendere tutto il pacchetto: un uomo che ti fa vincere le partite da solo, ma com’è successo nel derby di Coppa Italia te le fa anche perdere.

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Ci sono poi altre evidenti questioni tattiche che si risolveranno con il rientro di un paio di titolari – a cominciare dall’asfissia che coglie alla gola la manovra della squadra quando mancano contemporaneamente Bennacer e Calhanoglu. Ma nell’attesa al Milan conviene davvero fare a gara a chi è più stronzo (absit iniuria verbis!) con chi possiede questa peculiarità da anni, a cominciare dalle due avversarie che l’hanno sconfitto nell’ultima settimana? O forse è meglio fare due passi indietro, resettare le turbolenze di questo tempestoso gennaio e far ripartire il sistema dai settaggi di Capodanno? È questo il crinale su cui sta sospesa la stagione di gloria fin qui architettata benissimo dal suo allenatore, che tuttavia rimane un uomo che fino alla scorsa estate era stato in cima alla Serie A solo per una trascurabile domenica di inizio settembre 2010, sulla panchina del Chievo. La vertigine da alta quota riguarda soprattutto Stefano Pioli, che a questo fragoroso richiamo alla cattiveria non può sentirsi estraneo, sia pure ce lo figuriamo un po’ tentennante, mentre Zlatan, come certi surfisti californiani belli e maledetti, non fa mistero di aspettare la Grande Onda su cui vincere o morire (sportivamente parlando, s’intende). Ma poi, da dove arriva e da dove proviene questo famoso richiamo? Forse dal famoso “ambiente” immateriale ma presentissimo in ogni squadra, in ogni spogliatoio, impalpabile come i contorni di questo campionato virtuale, come i sussurri e le grida del film di Ingmar Bergman. Svedese e tormentato pure lui, anche se non esattamente il tipo che avrebbe attaccato briga con Lukaku.

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