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Un derby non è una gara di bon ton (e dire “voodoo” non è razzismo)

Jack O’Malley

Ibra, Lukaku e gli ultras dell’indignazione permanente

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Nella stucchevole gara a chi ha l’indignazione più lunga, da martedì sera diversi giornalisti scomodi ma con la schiena dritta stanno cercando di convincere tutti che Zlatan Ibrahimovic è un volgare razzista. Operazione che per certi versi è sembrata funzionare, grazie agli indignati per eccellenza, gli utenti dei social che tornano buoni per sostenere qualunque opinione e il suo contrario. Prima di lasciare in dieci la sua squadra nel derby di Coppa Italia perso con l’Inter, l’attaccante milanista era stato protagonista di una rissa verbale con il suo ex compagno ai tempi del Manchester United e oggi bomber dell’Inter, Romelu Lukaku. Insulti, minacce, compagni che trattengono l’attaccante belga, coda polemica da parcheggio di periferia all’intervallo stile ti-aspetto-fuori, poi l’espulsione dello svedese e la vittoria nerazzurra.

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Nella stucchevole gara a chi ha l’indignazione più lunga, da martedì sera diversi giornalisti scomodi ma con la schiena dritta stanno cercando di convincere tutti che Zlatan Ibrahimovic è un volgare razzista. Operazione che per certi versi è sembrata funzionare, grazie agli indignati per eccellenza, gli utenti dei social che tornano buoni per sostenere qualunque opinione e il suo contrario. Prima di lasciare in dieci la sua squadra nel derby di Coppa Italia perso con l’Inter, l’attaccante milanista era stato protagonista di una rissa verbale con il suo ex compagno ai tempi del Manchester United e oggi bomber dell’Inter, Romelu Lukaku. Insulti, minacce, compagni che trattengono l’attaccante belga, coda polemica da parcheggio di periferia all’intervallo stile ti-aspetto-fuori, poi l’espulsione dello svedese e la vittoria nerazzurra.

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Scene viste mille volte sui campi da calcio, soprattutto nelle partite più sentite e importanti. La nostra è l’epoca del guardonismo, però, delle intercettazioni non penalmente rilevanti spacciate per notizie. Allora, complice il silenzio dello stadio che amplifica tutto, gli autoproclamatisi tutori del bon ton pallonaro si sono messi a vivisezionare il labiale dei due calciatori e non appena scorto il potenziale insulto razzista (“vai a fare i tuoi riti voodoo di merda” detto da Ibra a Lukaku) ecco lanciare l’allarme, la richiesta di chiarimento, la domanda di squalifica, la pubblica gogna per un calciatore solitamente chiamato “zingaro” dai tifosi avversari. Non sembrava vero, ai colti controllori della rete, di segnalare un gravissimo episodio di offesa razziale, di poterlo denunciare e collaborare così a rendere il mondo un po’ migliore.

 

Premesso che dare del razzista a Ibrahimovic è come dare dell’astemio a Gascoigne, osservo preoccupato questa nuova perversione di leggere il labiale di due giocatori in campo per cercare un qualunque indizio di colpevolezza. Nel  caso specifico, poi, si assiste al curioso paradosso per cui è semmai razzista vedere razzismo nell’utilizzo della parola “voodoo” nei confronti di un giocatore nero (che nella più spettacolare delle nemesi ha poi vestito i panni del luogo comune minacciando l’altro di sparargli in testa, come nella caricatura di un personaggio del Bronx). Le cose che si dicono in campo appartengono al campo, come hanno giustamente detto i due allenatori a fine partita, e se escono servono a ricordarci che una partita di calcio non è un tè con Lina Sotis. Peraltro lì sarebbero restate, perché alle orecchie dei telespettatori nulla era arrivato: il problema è che nella narrazione che va tanto di moda si sta tentando di trasformare il calcio in una cosa a metà tra una lezione permanente di educazione civica e un comizio progressista sui diritti. Ecco perché quando emerge invece l’anima tribale di questo sport (anche in tutta la sua meravigliosa estetica) ci si scandalizza.

 

Il giornalista che cerca il razzismo in ogni suono che proviene dal campo per poterlo denunciare e sentirsi migliore a ogni retweet è lo specchio intellettuale dei due colossi che con fare inurbano si insultano le mamme trattenuti da compagni grossi la metà di loro. Arrivare a decifrare la cafonaggine dei cafoni non restituisce dignità a una partita che certamente non l’ha persa per gli insulti di quei due: da mesi ci lamentiamo che senza pubblico anche una finale di Champions League sembra un allenamento infrasettimanale, per una volta che due squadre fanno vedere cattiveria e rabbia ci facciamo il problema del buon esempio da dare? Siamo abbastanza intelligenti da pensare che due che si insultano le madri in campo siano scemi, ma dove sarebbe lo scandalo nella tensione anche eccessiva di chi sente l’importanza di una partita? Chi chiede che Ibrahimovic sia messo nell’elenco degli impresentabili perché razzista (là dove fino a ieri il suo fare da bullo piaceva così tanto) o non ha capito niente o, con più probabilità, usa in modo strumentale uno scontro che razzista non era e che sarebbe dovuto rimanere nella zona grigia di cui ogni partita di calcio è fatta.

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Ibra e Lukaku hanno litigato in modo veemente in campo come ha fatto e fa ogni calciatore dall’inizio dei tempi. Lukaku è un ragazzo intelligente, ma ho il forte sospetto che se si fosse sentito vittima di razzismo lo avrebbe fatto presente all’arbitro. Il soccorso delle truppe politicamente corrette dei social, degli editorialisti da bolla (vero, Gianni?) e dei giornali alla frutta che-ne-sanno-di-più anche di chi era in campo ha trasformato un episodio che in tempi meno grami ci avrebbe divertito tantissimo in una polemica in cui da ieri sguazzano persino coloro i quali di solito denunciano la censura del pensiero mainstream. Lasciate che il calcio resti scontro fra tribù in un’arena, vi prego, non trasformatelo in un inserto del New York Times.

 

 

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