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Il Foglio sportivo

La Serie A dei cavalli di ritorno

Andrea Romano

Costruire il futuro ripescando il passato. La moda del calciomercato italiano

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Il loro aspetto è cambiato dall’ultima volta. Qualcuno ha gli zigomi più marcati, altri hanno il viso appesantito da un paio di borse viola, c’è addirittura chi ha iniziato a stempiarsi. Sono invecchiati. Tutti quanti. Mutamenti che colpiscono l’occhio e accartocciano la fronte in un’espressione dubbiosa. Perché la speranza è una sola. Ossia che la differenza fra quello che sono stati e quello che sono adesso non sia poi così marcata. Negli ultimi anni la Serie A è diventata una terra di ritorno. Per chi se n’era andato coperto di gloria. Per chi quel lustro era andato a cercarlo altrove. Non c’è società che non abbia guardato al passato per costruire il proprio futuro, non c’è direttore sportivo che non abbia riportato in Italia qualche expat del pallone. Un loop dove ieri diventa eternamente oggi, dove la speranza di poter rigenerare un calciatore avanza sospesa sul baratro dell’utopia, dove si chiede aiuto al fantasma del Natale passato perché quello presente non è poi così esaltante. Il peccato originale è datato anno del Signore 2010. Un mercato da pane e cipolle consegna alla Roma di Claudio Ranieri Adriano, fu fenomeno che l’Inter aveva sbolognato al Flamengo. Quello che si presenta nella capitale è un attaccante pingue e con i muscoli che sferragliano per il campo. L’ostensione del brasiliano va in scena in un Flaminio gremito.

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Il loro aspetto è cambiato dall’ultima volta. Qualcuno ha gli zigomi più marcati, altri hanno il viso appesantito da un paio di borse viola, c’è addirittura chi ha iniziato a stempiarsi. Sono invecchiati. Tutti quanti. Mutamenti che colpiscono l’occhio e accartocciano la fronte in un’espressione dubbiosa. Perché la speranza è una sola. Ossia che la differenza fra quello che sono stati e quello che sono adesso non sia poi così marcata. Negli ultimi anni la Serie A è diventata una terra di ritorno. Per chi se n’era andato coperto di gloria. Per chi quel lustro era andato a cercarlo altrove. Non c’è società che non abbia guardato al passato per costruire il proprio futuro, non c’è direttore sportivo che non abbia riportato in Italia qualche expat del pallone. Un loop dove ieri diventa eternamente oggi, dove la speranza di poter rigenerare un calciatore avanza sospesa sul baratro dell’utopia, dove si chiede aiuto al fantasma del Natale passato perché quello presente non è poi così esaltante. Il peccato originale è datato anno del Signore 2010. Un mercato da pane e cipolle consegna alla Roma di Claudio Ranieri Adriano, fu fenomeno che l’Inter aveva sbolognato al Flamengo. Quello che si presenta nella capitale è un attaccante pingue e con i muscoli che sferragliano per il campo. L’ostensione del brasiliano va in scena in un Flaminio gremito.

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 Adriano arriva, saluta, calcia qualche pallone, si fa fotografare mentre stende una sciarpa con scritto “Mo te gonfio”. È l’unico ricordo che riesce a lasciare nei suoi otto mesi a Roma. Le eucarestie domenicali non servono a evangelizzare l’Olimpico. In cinque presenze Adriano non segna neanche un gol. Così a marzo sale un aereo e torna in Brasile. Il suo contratto è rescisso. Ed è un sollievo per tutti. Tanto per l’attaccante quanto per il club. Ma è nelle ultime stagioni che i ritorni sono stati elevati a sistema. Anche a causa di un mercato sempre meno florido. Soprattutto per il povero calcio italiano. E con le casse vuote devono necessariamente riempirsi le calotte craniche. La nostalgia si trasforma in faro, l’usato (più o meno) sicuro in un porto che offre riparo. L’esperienza pregressa in Serie A diventa parte essenziale nella valutazione sull’acquisto di un giocatore. Ufficialmente perché chi ritorna non ha bisogno di un periodo di ambientamento a un sistema calcio che si autoproclama più difficile degli altri. Ufficiosamente perché le possibilità di regalare un fenomeno ai tifosi sono piuttosto limitate. Così il nome pesante, il colpo che deve annunciare urbi et orbi le rinnovate ambizioni del club coincide spesso con un calciatore che il meglio lo ha già dato. L’acquisto come atto di fede, i primi allenamenti come speranza di una resurrezione prima individuale e poi collettiva. Tutto per un infinito album di figurine dove i calciatori vengono ritratti con maglie dai colori diversi e facce sempre più rugose.

   

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Il capolavoro lo ha dipinto il Milan un anno fa. Una squadra tristemente undicesima con otto punti di ritardo dal sesto posto mette nel motore Zlatan Ibrahimović. Anni trentotto, ultima esperienza nella MLS. Non esattamente il campionato più impegnativo del mondo. L’attaccante si congeda dal suo vecchio club invitando i tifosi a tornare a seguire il baseball. Ibra è rimasto Ibra almeno nella sua autonarrazione, pensano tutti. E invece il trapianto funziona. A Milano lo svedese si prende la briga di smentire anche quella frase di Pablo Picasso che recita: “I quarant’anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma è troppo tardi”. Perché il Milan non perde più una partita. Nel vero senso della parola. Il paradosso è piuttosto chiaro: il Diavolo inizia a ritornare grande proprio quando smette di inseguire la sua grandeur berlusconiana, quando ripudia quella passione del Cavaliere per gli instant team lo spingeva a buttare in squadra giocatori dall’impatto leggero e dalla carta di identità pesante. L’esperienza di Ibra è benzina per una squadra così giovane. A fine anno arriva il ritorno in Europa. A metà di questo campionato il sogno scudetto è ancora intatto. Così il Milan opta per il copia incolla. Il mercato di gennaio stavolta porta in dono Mario Mandzukic, anni 35, una bacheca affollata, un passato da combattente anche con la Juve, un presente ectoplasmatico con l’Al-Duhail. “Io e Ibra faremo paura insieme” ha detto il croato. Ed è vero. Ma l’atlante dei ritorni è piuttosto corposo. In estate la Sampdoria ha riportato in Italia Keita Baldé, promessa del Barcellona che si è messa in mostra con la Lazio ma che non aveva convinto fino in fondo con il Monaco (e anche con l’Inter). La Juventus, invece, ci ha riprovato con Morata, spagnolo dal talento certo come la sua discontinuità nel rivelarlo. Il progetto originale, però, era piuttosto diverso. Perché il preferito dai bianconeri era Luis Suarez, trentaquattrenne reietto del Barcellona che dopo aver imparato l’italiano a tempo record si era accordato con i colchoneros. E aveva liberato proprio Morata, uno che negli ultimi quattro anni aveva segnato per il Real, per il Chelsea e per l’Atletico. Senza mai entrare davvero nel cuore dei tifosi. Un’operazione che ha preso tutti in contropiede ma che ha inserito un talento ancora giovane in una rosa dall’età avanzata. All’Inter il ritorno ha preso contorni ancora diversi. Perché Antonio Conte ama soprattutto un tipo di giocatori: quelli che ha già allenato. E se lo scorso anno, nella perplessità generale, aveva espresso il desiderio riabbracciare Moses, quest’estate è stato il turno di Arturo Vidal, suo luogotenente in bianconero reduce da una parentesi poco brillante nel Barcellona. È a gennaio che la nostalgia prende il sopravvento. E che i ritorni diventano fenomeno di massa. A Cagliari hanno stanno sperimentando il Nainggolan-ter, con il centrocampista belga impegnato a ricercare lo smalto perso dopo il suo addio alla Roma. Il Genoa ha affidato le speranze salvezza a Kevin Strootman, un centrocampista soverchiante che non è diventato il padrone delle mediane di mezza Europa per colpa di tre operazioni al ginocchio. E quello che a Roma era stato soprannominato “Lavatrice”, a Marsiglia si era scoperto elettrodomestico ricondizionato. Ma non c’è club che non abbia flirtato con qualche ex protagonista del nostro campionato. L’Inter con Eder ed Emerson Palmieri, la Roma con El Shaarawy, il Parma con Benatia, la Juventus con Llorente. Un torneo che assomiglia molto a un revival, con club e tifosi pronti a impazzire per un brano, anzi, un calciatore, che ricorda la loro giovinezza. Ma per tornare grande la Serie A ha bisogno di smettere di guardare continuamente al proprio passato. E di milioni da investire sul mercato. Tanti.

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