Arturo Vidal dell'Inter segna il primo gol della sua squadra durante la partita tra Inter e Juventus a San Siro, domenica 17 gennaio 2021 (Foto AP / Luca Bruno)

Dopo il 2-0 di San Siro 

La nuova Juve si chiama Inter

Perché la vittoria della squadra di Conte segna un ideale passaggio di consegne 

Giuseppe Pastore

Per 90 anni la Juventus ha posseduto il monopolio della narrazione, rassicurante e sempre uguale a sé stessa, della squadra vincente italiana che si esalta nelle difficoltà. Ora non è più così 

C'è una Juventus tutta nuova in questo campionato giunto quasi al giro di boa: si chiama Inter. Tralasciando i madornali scivoloni tattici della Vecchia Signora originale, a cominciare dallo srotolamento sistematico a sinistra di un mega-tappeto rosso per Hakimi e Barella, la magnifica prova d'orchestra della banda-Conte segna il passaggio di consegne. Ovviamente non dello scudetto, che non siamo nemmeno a metà strada e d'altra parte il Milan sta parallelamente sviluppando un'idea ancora diversa e ugualmente di successo, a riprova delle infinite combinazioni e alchimie che possono condurre a quel risultato misterioso che si chiama vittoria. Si tratta di un passaggio di consegne di tradizione, che prescinde dal puro risultato – che pure, essendo in Italia, ha la sua enorme importanza – e riguarda più che altro la forma di quel risultato.

 

Per novant'anni la Juventus ha posseduto il monopolio della narrazione, rassicurante e sempre uguale a sé stessa, della squadra vincente italiana che si esalta nelle difficoltà, reagisce alle critiche, fa quadrato, puntella la difesa, ringhia, pressa e ti infilza di rimessa: non solo nei fatti ma anche nella retorica della vittoria, il “vincere è l'unica cosa che conta” che, prima di essere un brutto slogan, è la frase che campeggia idealmente nello stemma araldico del calcio all'italiana. Ma in questo momento la Juventus – lo abbiamo scritto anche in passato, per esempio quando due mesi fa schierò in Champions League una difesa senza italiani per la prima volta nella sua storia – è alle prese, per scelta o per forza, con una metamorfosi più profonda di quello che sembrano suggerire i faccioni da Prima Repubblica di Buffon o Chiellini, sempre più tendenti alla gommapiuma, mandati in campo e in tv più per rassicurare il popolo che per una reale efficacia. In altre parole: se dal 1930 al 2020 un centrocampista come Nicolò Barella – il prototipo del numero 8 italiano spigoloso, razzente, elettrico, assaltatore, intenso – avrebbe visto nella Juventus il suo approdo naturale, oggi non è più così. Oggi gioca nell'Inter e affonda la lama nel ventre molle dell'avversaria di lusso come ha sempre fatto qualunque mezzala di lotta e di governo della storia bianconera, da Tardelli in giù. Da sempre allergici a qualunque battuta sulla provenienza di Conte e Marotta, già pronti ad appiccare nuovi incendi per il saluto prepartita un po' troppo affettuoso di Vidal a Chiellini che si concludeva con un bacetto sulla maglia pericolosamente vicino al logo della Juventus, i tifosi interisti più pasdaràn si sforzino di non offendersi se definiamo quest'Inter trapattoniana: in fondo, oltre a essere l'allenatore che ha portato Antonio Conte a Torino, nel 1989 il Giuàn ha anche vinto uno scudetto memorabile con i nerazzurri. È ancora presto per paragonare Barella a Matthaeus, anche se forse il numero 23 nerazzurro è il giocatore più adatto a prodursi in quei poderosi strappi centrali di quaranta metri che spaccano le gambe ad avversari in ginocchio per aprire squarci larghi metri quadri in cui sguinzagliare Lautaro, Lukaku e gli esterni. Ma tornando alla forma di questo Inter-Juve 2-0, al quadro generale, è certamente un po' juventina (nel senso buono, non vi arrabbiate!) una squadra che ieri sera ha ritrovato il gusto della buona difesa come non le capitava da mesi, senza annaspare come nei finali di gara contro Napoli e Roma, ma anzi attirando nella tela i monotoni uno contro uno di Bernardeschi e Chiesa per poi recuperare palla e scatenare l'inferno – ovvero, Hakimi.

 

Naturalmente in novant'anni sono esistite tante altre squadre italiane diverse dalla Juventus che predicavano e praticavano con successo lo stesso calcio – un calcio che  quando si esprime con questa compiutezza e questa continuità sui 90 minuti è entusiasmante, così come fu entusiasmante la Nazionale di Conte agli sfortunati Europei 2016, e Inter-Juve 2-0 è sembrata a lungo una copia di Italia-Spagna 2-0, Stade de France, 27 giugno 2016. La stessa Inter può vantare una gloriosa tradizione. Ma rispetto al 1989, il problema dell'Inter è che la schizofrenia dei tempi attuali non consente una navigazione serena (e non parliamo di Aldo): ogni partita è un esame, ogni passo falso eventuale cancella i buoni risultati della volta prima. Sette giorni fa ci trovavamo qui a vivisezionare le parole di Conte post Roma-Inter, cercandovi invano una spiegazione a certi cambi cervellotici. Oggi lo riportiamo sugli scudi: non vedeteci una contraddizione. Viviamo tempi complicati, scolpiti sulla faccia corrucciata di Conte che neanche dopo la miglior partita della sua gestione ha voluto sbilanciarsi in una dichiarazione di sincero interismo, un bel “siamo forti, siamo più forti di loro” pronunciato con voce sicura e finalmente sorriso sulle labbra, preferendo la prudenza al volo pindarico, il passettino misurato alla fuga in avanti, con la schiena ben rasente al backdrop pubblicitario alle sue spalle. Vi viene in mente qualcosa di più italiano, e dunque di più juventino?

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