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Il Foglio sportivo

Lukaku, il gigante che può diventare titano

Giuseppe Pastore

Atlante nerazzurro, il centravanti belga ha l’Inter sulle spalle. Contro la Juve sfaterà il mito di essere piccolo con le grandi?

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Non tutti sanno che Atlante, il gigante perennemente raffigurato mentre regge sulle spalle l’intera volta celeste, era molto probabilmente nero. Per l’esattezza un re nero, il re della Mauritania, oggi al limite dell’Africa sub-sahariana. Atlante fu punito da Zeus per aver guidato l’insubordinazione dei Titani e perciò condannato all’infinita sofferenza; per giunta, fu clamorosamente gabbato da Ercole che si servì di lui per sbrigare la penultima delle sue dodici fatiche. Un capolavoro di astuzia: Ercole doveva consegnare a Euristeo, re di Micene, tre pomi d’oro da cogliere nell’inaccessibile giardino delle Esperidi, le ninfe figlie di Atlante. Costui – appunto – era sempre lì che reggeva la volta celeste, e cercò di ingannarlo, offrendosi volontario per cogliere i pomi. Tornò con i pomi, ma a quel punto comunicò a Ercole che non era più disposto a sottostare al suo millenario supplizio: “Io ho già dato, adesso questo peso te lo smazzi tu”. Ma Ercole l’era minga un pirla: finse di accettare, ma al momento dello scambio chiese un semplice cuscino per rendere più sostenibile il peso del firmamento. “Me lo reggi un attimo tu?”. Atlante abboccò: non appena si riprese in mano il cielo appoggiando i pomi per terra, Ercole glieli soffiò e scappò via, lasciandolo con un palmo di naso e con il cielo sulle spalle per l’eternità.

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Non tutti sanno che Atlante, il gigante perennemente raffigurato mentre regge sulle spalle l’intera volta celeste, era molto probabilmente nero. Per l’esattezza un re nero, il re della Mauritania, oggi al limite dell’Africa sub-sahariana. Atlante fu punito da Zeus per aver guidato l’insubordinazione dei Titani e perciò condannato all’infinita sofferenza; per giunta, fu clamorosamente gabbato da Ercole che si servì di lui per sbrigare la penultima delle sue dodici fatiche. Un capolavoro di astuzia: Ercole doveva consegnare a Euristeo, re di Micene, tre pomi d’oro da cogliere nell’inaccessibile giardino delle Esperidi, le ninfe figlie di Atlante. Costui – appunto – era sempre lì che reggeva la volta celeste, e cercò di ingannarlo, offrendosi volontario per cogliere i pomi. Tornò con i pomi, ma a quel punto comunicò a Ercole che non era più disposto a sottostare al suo millenario supplizio: “Io ho già dato, adesso questo peso te lo smazzi tu”. Ma Ercole l’era minga un pirla: finse di accettare, ma al momento dello scambio chiese un semplice cuscino per rendere più sostenibile il peso del firmamento. “Me lo reggi un attimo tu?”. Atlante abboccò: non appena si riprese in mano il cielo appoggiando i pomi per terra, Ercole glieli soffiò e scappò via, lasciandolo con un palmo di naso e con il cielo sulle spalle per l’eternità.

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Romelu Lukaku, moderno Atlante, sembra giocare con il peso del cielo addosso. Ancora più stupefacente, sembra che la cosa non gli procuri alcuno sforzo: “Life is too short for the stress and the drama”, disse una volta, frase che fa a cazzotti con la cinesica del suo allenatore. Si carica addosso volentieri l’intera fase offensiva del miglior attacco del paese, che torna a fluire e rifiorire davvero solo quando c’è lui in campo, in Serie A come in Coppa Italia, dirigendo le operazioni di risalita di un campo che lui trasforma in discesa. Si sporca le mani molto più degli altri titani del campionato, Ibrahimovic e Cristiano Ronaldo, assai restii alla fase difensiva: lui invece sgomita, pesta, sbuffa, fa a sportellate con tutti gli Smalling del mondo e quasi rischia il rosso per troppa foga. Si carica il peso delle aspettative di un popolo che non solleva un trofeo da quasi un decennio, dopo essersi caricato, ancora adolescente, il peso della sua intera famiglia.

 

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Poche cose sono davvero impossibili nella vita, ma tra queste c’è il volere male a Lukaku. Specialmente se avete letto uno dei pezzi più straordinari mai firmati da un calciatore in prima persona, quello pubblicato sul sito The Players’ Tribune all’inizio del Mondiale 2018. L’incipit è folgorante: “Ricordo l’attimo esatto in cui capii che eravamo sul lastrico”. Prosegue con la descrizione della scoperta della povertà, avvenuta a sei anni nel momento in cui si accorge che sua madre sta allungando di nascosto il latte con l’acqua. La povertà è un concetto scandaloso, al limite del pornografico per i calciatori di oggi, educati all’ostentazione della ricchezza come l’unica normalità possibile: ma Lukaku ricorda la sua povertà di bambino in modo lucido, anti-retorico e persino umoristico, come quando racconta che passarono due settimane prima che riuscisse ad ammirare il favoloso gol di Zidane in finale di Champions al Bayer Leverkusen, perché a casa mancava anche la corrente elettrica. Nonostante si sottoponga a sforzi fisici immani, Lukaku mantiene questa lucidità anche mentre gioca: una lucidità intesa non solo come freddezza davanti al portiere, ma anche come capacità di fare i movimenti giusti al posto giusto, il famoso lavoro sporco che l’ha reso indispensabile per Conte che lo corteggia già da prima che diventasse Lukaku, che per lui ha accettato di volgere le spalle alla porta guardandola solo di rado, come Atlante raramente guardava il cielo. Tuttavia, come tutti i semidei che aspirano all’immortalità, anche il titano Romelu ha un punto di caduta, con cui dovrà fare i conti proprio questo fine settimana.

 

L’anno scorso Lukaku è stato il peggiore in campo in entrambe le partite contro la Juve, perse con un totale di 4-1. Ha giocato sei volte contro le due romane e ha segnato una sola rete, su rigore. Nessuno dei suoi tre gol al Milan è stato decisivo: in due casi l’Inter stava già vincendo, nell’ultimo non ha evitato la sconfitta. Benché profondamente avversata dagli interisti, la statistica sul Romelu dalle gambe di pastafrolla “quando il gioco si fa duro” ha una sua ragion d’essere e si ripete pienamente anche contro le big del calcio inglese: un gol in 10 partite contro il Chelsea, uno in 12 contro il Tottenham, due in 15 contro l’Arsenal. Il dubbio sgorga spontaneo e impetuoso come acqua di fonte: nella società del cattivismo e del cinismo che procede a oltranza come una brutta serie di calci di rigore, Lukaku paga il fatto di essere troppo buono? Nonostante questi numeri che incupirebbero colleghi molto meno pensanti di lui, Romelu non ha mai smarrito quel sorriso che tende alla saggezza, ancora più apprezzabile in quest’Inter malmostosa fin da inizio stagione, piombata al suolo da aspettative che si è auto-caricata sulle spalle senza nemmeno l’alibi delle punizioni divine (cui l’Inter è peraltro notoriamente allergica, visto che non ne mette una in porta da quasi tre anni). Ora la sorte e il calendario gli regalano la grande occasione di affrontare una Juventus priva del solo difensore che può fisicamente tenergli testa, ovvero De Ligt, unico argine a Duvan Zapata un mese fa in Juve-Atalanta. È dunque legittimo scrivere che se Lukaku fallirà anche quest’occasione – e alle soglie dei 28 anni iniziano a essere tante – in un momento chiave della stagione e della carriera, saremo ben oltre i proverbiali tre indizi che fanno una prova. Romelu non se ne adonterà: “Quando le cose andavano bene, scrivevano che ero il centravanti belga”, osservava già ai tempi dell’Anderlecht, “mentre quando andavano male, scrivevano che ero il centravanti belga di origini congolesi”. Nessuno aveva ancora mai scomodato i miti greci: ma il passaggio da gigante a titano sta oltre uno scalino mentale ormai ineludibile, superato il quale banalmente i palloni vengono buttati in porta e non allontanati com’è successo a due minuti dalla fine di Inter-Shakhtar. Sulle sue spalle colossali grava anche il peso dell’eliminazione in Champions, in quella formidabile quanto involontaria capocciata difensiva, col pallone colpito di testa da Alexis Sanchez che ha impattato contro lo sciagurato Romelu poco sopra la prima vertebra cervicale: un osso fondamentale, che sostiene il cranio come Lukaku sostiene l’Inter e, ironia della sorte, si chiama proprio atlante.

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